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La cupola invisibile con massoni, politici e 007: «Sono una cosa sola»

Le rivelazioni di alcuni pentiti depositate agli atti del processo Gotha a Reggio: Cosa nostra, ‘ndrangheta, camorra e Sacra corona unita sin dai primi anni ’80 sarebbero governate unitariamente da…

Pubblicato il: 27/03/2019 – 13:12
La cupola invisibile con massoni, politici e 007: «Sono una cosa sola»

REGGIO CALABRIA Mafia, ‘ndrangheta, camorra e sacra corona unita, sin dai primi anni ’80 sono governate unitariamente da un vertice segreto di “invisibili” di cui fanno parte, oltre ai massimi esponenti delle varie associazioni, massoni, servizi segreti deviati e politici. A dirlo sono alcuni pentiti tra i quali Gioacchino Pennino e Leonardo Messina, i cui verbali sono stati depositati agli atti del processo Gotha dal procuratore aggiunto della Dda di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo. Pennino, esponente di vertice di Cosa Nostra e massone, interrogato nel febbraio 2014, disse: «Mio zio Gioacchino Pennino mi confidò di essere stato latitante negli anni ’60 ospite dei Nuvoletta nel Napoletano. La cosa non deve sorprendere in quanto Cosa nostra, ‘ndrangheta e Sacra corona unita, sono da sempre unite fra loro. Sarebbe meglio dire sono una “cosa sola”. Da lì mio zio, come mi raccontò, si recava in Calabria dove, mi disse, aveva messo insieme massoni, ‘ndrangheta, servizi segreti, politici per fare affari e gestire il potere. Una sorta di comitato d’affari perenne e stabile». Pennino racconta anche che «essendone molto amico», pochi mesi prima della sua morte, «nel 1980-1981 mi trovai a parlare con Stefano Bontate. Nel corso di questo incontro Bontate mi disse che avrebbe avuto molto piacere se lo avessi aiutato a continuare “quel progetto di tuo zio” (il comitato d’affari fra criminali, massoni e servizi) non solo in Calabria, dove si era consolidato, ma anche in Sicilia dove il progetto era ancora in fase embrionale. Io con molta diplomazia riuscii a svicolare e a declinare l’invito. Non volevo assumere questo ruolo e non mi interessava farlo».
«I SOLDATI NON SANNO, SOLO IL VERTICE SA» Parole che si sovrappongono a quelle riferite da Leonardo Messina, mafioso che collaborò col giudice Paolo Borsellino, che nel 1992, sentito dalla Commissione parlamentare antimafia, rispondendo alle domande dell’allora presidente Luciano Violante, disse parlando di Cosa nostra: «Sì, ci sono strutture che non comunicano: non è che tutti gli uomini devono sapere. Vi sono uomini che non sanno oltre la propria famiglia, o la propria decina». Quindi alla domanda di Violante «vi sono persone che entrano in Cosa nostra ed il cui nome è destinato a restare sconosciuto?» la risposta fu «sì, o perché rivestono cariche politiche, o perché sono uomini pubblici e nessuno deve sapere chi sono. Lo sa soltanto qualcuno». Poi aggiunse: «Il vertice della ‘ndrangheta è Cosa nostra. I soldati non sanno che appartengono tutti ad un’unica organizzazione. Lo sa il vertice. È il vertice che deve conoscere». Messina riferì che, all’epoca, uno dei vertici era “Ciccio” Mazzaferro. Messina parlò anche dell’esistenza di «un regionale anche in Calabria» ed alla domanda se «anche in Calabria il rapporto della mafia con la società e le istituzioni è lo stesso» la
risposta fu «sì, praticamente è una di quelle regioni in cui si è padroni del territorio». Quindi, in merito alla presenza della ‘ndrangheta a Messina, Leonardo Messina risposte che «ci sono pochi uomini d’onore, si erano spostati dei catanesi ma la realtà ufficiale è ‘ndrangheta. Lei capisce che sarebbe impossibile che Cosa nostra si faccia rubare il territorio dalla ‘ndrangheta: è una sola struttura».
L’OMICIDIO DEL GIUDICE SCOPELLITI L’omicidio del sostituto procuratore generale della Cassazione Antonino Scopelliti, potrebbe essere stato deciso dalla “cupola” che – come riferito da alcuni pentiti – riunisce il gotha di tutte le organizzazioni mafiose, massoni, politici e servizi deviati per una gestione unitaria di tutte le mafie italiane. È l’ipotesi su cui stanno lavorando inquirenti e investigatori di Reggio Calabria che nelle scorse settimane hanno inviato avvisi di garanzia a 18 tra boss siciliani e calabresi, tra i quali il super latitante Matteo Messina Denaro. L’avviso è stato propedeutico all’affidamento della perizia tecnica su un fucile e su alcuni involucri usati per custodire l’arma – fatta ritrovare nel catanese dal collaboratore di giustizia Maurizio Avola, “sicario” della famiglia Santapola – e che sarebbe una di quelle utilizzate per compiere l’agguato in cui il magistrato che doveva sostenere l’accusa nel maxiprocesso a Cosa nostra fu ucciso il 9 agosto del 1991 a Villa San Giovanni. L’incarico è stato affidato alla Polizia scientifica di Roma giovedì scorso dal procuratore distrettuale di Reggio Calabria Giovanni Bombardieri e dagli aggiunti Gaetano Calogero Paci e Giuseppe Lombardo. La perizia inizierà il 4 aprile nella Capitale e per i risultati occorreranno una sessantina di giorni. Tra gli indagati, oltre a Messina Denaro, figurano i catanesi Marcello D’Agata, Aldo Ercolano, Eugenio Galea, Vincenzo Salvatore Santapaola, Francesco Romeo e Maurizio Avola, ed i calabresi Giuseppe Piromalli, Giovanni e Paquale Tegano, Antonino Pesce, Giuseppe De Stefano, Giorgio De Stefano,
Vincenzo Zito, Pasquale e Vincenzo Bertuca, Santo Araniti e Gino Molinetti. Giorgio De Stefano, nel 2018 è stato condannato a 20 anni di reclusione per avere fatto parte della cupola degli “invisibili”, legati ad ambienti massonici, che, secondo l’accusa, avrebbero dettato la linea strategica alle cosche sin dagli anni ’70 riuscendo a coordinare le operazioni criminali non solo della ‘ndrangheta ma anche delle altre mafie.

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