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l’inchiesta

La cosca «sfrontata» che voleva cacciare i Mancuso da Vibo

Le dichiarazioni degli inquirenti e i dettagli dell’operazione “Rimpiazzo”, che ha portato a 31 arresti contro i Piscopisani. Le estorsioni agli imprenditori che erano sotto il controllo del clan d…

Pubblicato il: 09/04/2019 – 14:55
La cosca «sfrontata» che voleva cacciare i Mancuso da Vibo

di Alessia Truzzolillo
VIBO VALENTIA Da un lato l’indagine “classica” fatta di pedinamenti, intercettazioni e lavoro investigativo sul territorio. Dall’altro le dichiarazioni di alcuni pentiti vibonesi come Raffaele Moscato, Andrea Mantella, Daniele Bono e Loredana Patania. Tutto è confluito nell’operazione “Rimpiazzo” che ha portato ad eseguire 31 arresti contro i Piscopisani, il clan che aveva il suo feudo a Piscopio, frazione di Vibo, e che puntava a scalzare i potenti Mancuso di Limbadi dal capoluogo vibonese e dalle frazioni marine. I magistrati della Dda di Catanzaro e gli investigatori della Polizia hanno ricostruito durante l’indagine circa 26 estorsioni, 9 danneggiamenti e 32 episodi di spaccio (qui i nomi di tutti gli arrestati e i video con alcune intercettazioni).
LA VOGLIA DI ANDARE CONTRO I MANCUSO «Abbiamo ricostruito l’organigramma dell’organizzazione mafiosa dei Piscopisani – ha detto Giorgio Grasso, capo della squadra mobile di Vibo – che a partire dal 2010, sfruttando il fatto che molti rappresentati dei Mancuso fossero in carcere, hanno pensato di affrancarsi totalmente dal controllo che i Mancuso esercitavano in maniera quasi monopolistica

su Vibo città, Vibo Marina, Porto Salvo, Longobardi e Bivona. Hanno cominciato ad affrancarsi iniziando una vera e propria guerra». Inizialmente i Piscopisani sceglievano le vittime delle estorsioni e delle intimidazioni individuandole tra quelle che loro sapevano essere sottoposte al controllo dei Mancuso. «Lo scopo – ha aggiunto Grasso – era di far conoscere in maniera sfrontata alla cittadinanza che il controllo era passato ai Piscopisani. Questo ha comportato una reazione dei Mancuso, in particolare di Pantaleone Mancuso “Scarpuni”, e l’inizio di una faida tra i Piscopisani e il clan affiliato ai Mancuso, ossia i Patania. Faida che ha visto arrivare, di recente, una serie di condanne definitive (nell’ambito del processo “Gringia-Dietro le quinte”, ndr)».
IL CASO MADULI La voglia dei Piscopisani di andare contro i Mancuso emerge secondo gli inquirenti da alcuni esempi significativi. Uno di questi riguarda l’imprenditore Domenico Maduli che, secondo quanto detto da Grasso in conferenza stampa, «aveva come socio tale Nicola Barba, soggetto sottoposto oggi alla custodia cautelare in carcere». «L’imprenditore Maduli – ha proseguito il capo della Mobile vibonese – era vittima di estorsione dai Mancuso, da Pantaleone “Scarpuni”. Ad un certo punto un esponente dei Piscopisani chiede a Maduli il cambio di un assegno di 10mila euro provento della vendita di un’auto. Maduli rifiuta di cambiare questi soldi ritenendo di essere protetto dai Mancuso». Accade allora che alcuni dei Piscopisani prendono quello che Grasso definisce «il socio di Maduli», cioè Barba, «lo schiaffeggiano e lo convincono a chiedere a Maduli il cambio di questi soldi facendogli credere che fossero per i Mancuso. In realtà – ha aggiunto Grasso – quei soldi sono andati ai Piscopisani. Da quel momento Maduli ha pagato i Piscopisani e dopo i primi 10mila euro ci sono stati anche altri 5000 euro».
L’INTIMIDAZIONE AL CANTIERE Un altro episodio significativo riguarda Moscato, oggi collaboratore di giustizia, che – ha raccontato Giorgio Grasso – in una occasione ha fatto scendere un operaio che stava su un cantiere e ha sparato al mezzo sul quale l’uomo lavorava. «Questo
 perché – ha spiegato il capo della Mobile di Vibo – volevano convincere il titolare della ditta a pagare un’estorsione. Moscato non ci racconta se questa ditta ha versato o meno il pizzo, però ci racconta che uno dei capi dei Piscopisani, Rosario Fiorillo, alias “Pulcino”, responsabile dell’omicidio di Fortunato Patania, incontra nel bar di Piscopio due operai di quella ditta. Non dice niente ma gli offre da bere. Quello è stato evidentemente un segno attraverso il quale ha voluto indicare il controllo del territorio e che per ogni problema la ditta si sarebbe potuta rivolgere a loro».
L‘ESTORSIONE AL MERCATO DEL PESCE La sfrontatezza della cosca emerge anche da un’estorsione perpetrata al mercato del pesce. Alcuni esponenti dei Piscopisani stavano partecipando a un’asta del pesce durante la quale un concorrente si è aggiudicato una cassetta di calamari che inizialmente i Piscopisani non avevano alcuna intenzione di acquistare. Di punto in bianco uno dei soggetti della cosca decide che vuole quella cassetta di calamari. Senza dire niente a nessuno i Piscopisani si sono impossessati della cassetta e se ne sono andati via come se nulla fosse, senza che nessuno dicesse o denunciasse niente, se non per parlare dopo tutta una serie di accertamenti fatti dagli uomini della Squadra Mobile di Vibo.
DROGA, ARMI E RAPINE La cosca di Piscopio aveva grande disponibilità di droga e armi. L’organizzazione aveva una base operativa a Bologna da dove partiva la droga, soprattutto hashish e cocaina. A Bologna è stata sequestrata nel corso delle indagini della droga e anche un Ak47, nel 2011. La droga da Bologna veniva veicolata dai Piscopisani in favore di un gruppo di palermitani trovato in possesso anche di quattro chili di cocaina. I palermitani andavano a Piscopio, trattavano, compravano la cocaina e se la portavano a Palermo. «In una circostanza, nel corso delle indagini – ha spiegato Giorgio Grasso – un palermitano è stato arrestato per detenzione di un chilo di cocaina e di un fucile a canne mozze calibro 12. Questo dimostra come la cosca fosse addentro a tutte le dinamiche criminali e avesse delle ramificazioni da Nord a Sud. Alcuni esponenti della cosca avevano messo radici al Nord per svolgere la loro vita».
Anche le rapine erano un’attività dei Piscopisani e avevano un scopo ben preciso: reperire liquidi da investire nel traffico delle sostanze stupefacenti.
GRATTERI: «ERANO CAPACI DI FARE COSE RARE NELLA ‘NDRANGHETA» Il questore di Vibo Andrea Grassi ha sottolineato come il lavoro delle squadre mobili di Vibo e Catanzaro sia stato portato avanti per mesi «con passione e amore ma soprattutto attenzione verso i temi che affliggono la terra di Calabria». Mentre il procuratore capo della Dda Nicola Gratteri ha parlato di un «patto con i vertici delle forze dell’ordine e con il capo della Polizia Gabrielli che oltre ad essere un grande condottiero è stato un uomo di parola perché ha mandato in Calabria dirigenti di squadra mobile di primissimo piano». L’indagine contro i Piscopisani è, secondo Gratteri, «la sintesi di questo investimento perché siamo riusciti a ottenere delle ordinanze di custodia cautelare verso una cosca che ha dimostrato di essere capace di fare qualcosa di inusuale e raro nella ‘ndrangheta: hanno pensato di sostituirsi ai Mancuso per controllare una grossa fetta di territorio e hanno coperto tutta la gamma dei reati tipici di un locale di ‘ndrangheta, senza dimenticare che tra i reati fine c’è anche quello di un grosso traffico di cocaina da vendere a Cosa nostra a Palermo».
Il capo della Dda ha espresso parole di stima nei confronti di Sebastiano Messina, che appena due giorni fa è stato nominato direttore della Centrale anticrimine. «Questa indagine – ha commentato Messina – porta uno spaccato chiarissimo delle dinamiche di ‘ndrangheta. È stato disvelato il retropensiero della cosca dei Piscopisani che volevano conquistare il potere della potente famiglia dei Mancuso. Noi non faremo mancare il nostro appoggio nella lotta alla ‘ndrangheta che, come possiamo constatare, è una priorità non solo nazionale ma mondiale».
GIULIANO: «FORTISSIMA CAPACITÀ OFFENSIVA» Il direttore dello Sco Alessandro Giuliano ha parlato della «fortissima capacità offensiva di questa cosca che, constatato un vuoto all’interno del clan rivale, è partita alla conquista militare di un territorio attraverso le estorsioni, il traffico di stupefacenti, l’intestazione fittizia di beni e anche le rapine». Mentre secondo Marco Chiacchiera, capo della squadra mobile di Catanzaro, «il risultato dell’operazione è la rappresentazione plastica, una sorta di manuale, di una lunghissima attività di indagine». «Abbiamo ripercorso una sequela lunghissima di delitti perpetrati da una cosca efferata. La violenza – ha aggiunto Chiacchiera – è uno dei connotati essenziali di questa cosca che oggi è stata disarticolata. Per questo è importante ringraziare, e questo è un giorno importante anche per loro, coloro che hanno denunciato e collaborato, pur avendo subìto gravi intimidazioni con colpi di pistola e violenze fisiche, aiutando ad arricchire il corredo probatorio contro questo gruppo criminale». (a.truzzolillo@corrierecal.it)

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