di Sergio Pelaia
LAMEZIA TERME Raffaele Moscato non era bravo «nell’affavellamento», non si ricordava bene le formule che si aprono con «buon vespero» e con cui si interrogano i componenti del «circolo formato» sull’«essere conformi» rispetto ai nuovi ingressi nella ‘ndrangheta. L’ex Piscopisano pentito, però, ricorda molto bene la sostanza di alcune alleanze che «battesimi» e «copiate» si portavano dietro. Alleanze di cui parla anche Andrea Mantella, che, come Moscato, con la sua collaborazione con la giustizia sta contribuendo a una rilettura della storia della ‘ndrangheta vibonese che per molti versi era rimasta finora sconosciuta ai più.
I BOSS DELLA JONICA E I MANCUSO Moscato ricostruisce gli appoggi della “società” di cui faceva parte, che dalla frazione alle porte di Vibo era arrivata a trovare agganci importanti fino al Crotonese e, soprattutto, nel Reggino. In particolare sul versante jonico. Vicini ai Piscopisani, secondo Moscato, sarebbero stati gli Aquino di Marina di Gioiosa, i Commisso di Siderno e i Pelle “Gambazza” di San Luca. I rapporti dei Piscopisani con i reggini, secondo il pentito, non si sarebbero mai interrotti. Il via libera alla costituzione del “locale” di Piscopio sarebbe arrivato proprio da San Luca, e i boss della jonica menzionati dal pentito sarebbero stati all’epoca consapevoli dell’avversità del clan vibonese nei confronti dei Mancuso di Limbadi. D’altra parte, spiega Moscato, anche loro non vedevano di buon occhio i Mancuso. Anzi, secondo il pentito il prestigio dei Piscopisani era proprio questa avversità nei confronti della cosca dominante nella provincia di Vibo. Se i reggini fossero andati d’accordo coi Mancuso, argomenta ancora il pentito, avrebbero dovuto «passare prima la parola» alla cosca madre di Limbadi. E ciò non è evidentemente avvenuto.
IL «MINISTRO» Vicino ai Piscopisani, poi, sarebbe stato anche Franco D’Onofrio. Lo rivela Moscato e lo conferma Mantella. Originario di Mileto ma trapiantato in Piemonte, condannato negli anni Ottanta per i suoi legami con i Colp (Comunisti organizzati per la liberazione del proletariato, gruppo affiliato a Prima Linea), D’Onofrio è già stato coinvolto nell’inchiesta antimafia “Minotauro” ma ha sempre negato di far parte della ‘ndrangheta, affermando anzi di essere «in dissenso totale» rispetto alla criminalità organizzata. Secondo Mantella, però, proprio lui «nel Vibonese rappresentava la ‘ndrangheta di San Luca» e si sarebbe attivato con i reggini per far aprire il “locale” di Piscopio. L’ex boss emergente di Vibo sostiene che D’Onofrio sarebbe riconosciuto come «un ministro della ‘ndrangheta» che, in quanto tale, ha voce in capitolo per poter sponsorizzare una famiglia. «Lui – racconta Mantella – mi disse di essere un ministro della ‘ndrangheta, quindi ha diritto al medaglione, ha delle doti molto alte e tali per cui può parlare alla mamma ‘ndrangheta con dote elevatissima. Uso il termine ministro perché la ‘ndrangheta ha i suoi referenti al Nord, in Lombardia come in Piemonte, e so che come ministro in Piemonte c’è lui».
I MAGISTRATI DI REGGIO E TORINO Il pentito dice di averlo incontrato in carcere a Torino, dove «aveva un “ufficetto” dove si fa la spesa, secondo lui era bonificato e quindi là dentro parlavamo». Mantella dice che D’Onofrio avrebbe covato astio nei confronti di alcuni magistrati: «Diceva che le Dda di Reggio e di Torino avevano fatto delle tragedie che lo stavano rovinando, e che si dovevano prendere dei provvedimenti su alcuni magistrati, sia in Calabria che qui. Mi ha detto che c’era un procuratore che gli stava alle calcagna, non mi ricordo il nome, ma mi disse che questo magistrato avrebbe dovuto fare la fine di quell’altro magistrato che era stato ucciso». Probabile che il riferimento fosse al procuratore Bruno Caccia, ucciso a Torino nel giugno del 1983 e per cui proprio D’Onofrio è stato tirato in ballo da un altro pentito, Domenico Agresta. Ma sul suo presunto coinvolgimento nell’omicidio del magistrato non è stato trovato finora alcun riscontro. (s.pelaia@corrierecal.it)
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