La Calabria ha finalmente il suo «bel» provvedimento emergenziale che, nell’immagine del legislatore governativo, risolverà d’emblée i suoi problemi, irrisolti da decenni, riguardanti la sua organizzazione sanitaria, sino ad oggi (e chissà fino a quando lo sarà) la peggiore dell’Europa occidentale, e oltre.
Pubblicato il decreto-Grillo: i calabresi ringraziano
Il Capo dello Stato, lo scorso 30 aprile, ha difatti emanato il decreto-legge n. 35, denominato «Misure emergenziali per il servizio sanitario della Regione Calabria e altre misure urgenti in materia sanitaria», approvato il 18 aprile scorso nella sessione del Consiglio dei Ministri svoltasi per l’occasione a Reggio Calabria, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 101 del 2 maggio 2019. Sarà compito della Regione – prescindendo da una verosimile impugnativa avanti la Corte costituzionale (inspiegabilmente negata da taluni sul piano procedurale!) – e del Commissario ad acta, gen. Saverio Cotticelli, applicarlo ed eseguirlo. Ciascuno nella proprie competenze, cominciando da quest’ultimo a dichiarare decaduti gli attuali commissari nominati nelle Asp/Ao/Aou dalla Giunta regionale. Nel sistema aziendale calabrese, rimarranno quindi in carica solo il DG preposto all’Ao di Catanzaro, che sarà comunque soggetto a verifica straordinaria, nonché la triade commissariale nominata dall’Esecutivo a capo dell’Asp di Reggio Calabria, sciolta per infiltrazione e condizionamento della ‘ndrangheta a mente del d.lgs. 267/2000.
Di certo, il provvedimento non risolverà i problemi che affliggono i calabresi, da decenni sofferenti in termini di esigibilità dell’assistenza sanitaria, mai ad un livello normale alle loro latitudini geografiche.
Rimarranno, infatti, inalterati disagi storici delle liste di attesa, che raggiungono ivi ritardi insopportabili e produttivi di ingiusti e a volte drammatici aggravamenti della salute degli utenti, soprattutto di quelli che richiedono accertamenti diagnostici intesi ad accertare tempestivamente la presenza di neoplasie ovvero di altre malattie gravi. Gli ospedali continueranno ad essere senza i requisiti minimi previsti per l’autorizzazione all’esercizio (di quelli ulteriori prescritti per l’accreditamento neppure a parlarne!) tanto da lasciare perdurare lo stato di illegittimità e illiceità della loro attività di ricovero e cura. La tecnologia dei presidi ospedalieri spoke continuerà ad essere inadeguata e in molti casi da considerare pressoché un rottame. L’assistenza territoriale rimarrà quella che è, praticamente con le «gomme a terra», ciò nel senso di non essere neppure correttamente disegnata. L’assistenza domiciliare continuerà ad essere un miraggio, i pronto soccorso rimarranno super affollati e i presidi ospedalieri periferici persino senza letti e sedie. Non solo. La quota 100 ucciderà definitivamente la sanità calabrese che, complice la reiterazione del blocco del turnover, si svuoterà di personale medico e infermieristico.
A fronte di tutto questo, forse, si riuscirà a fare qualcosa nell’Asp di Reggio Calabria, sciolta – come detto – per condizionamento della ‘ndrangheta, nel senso di ricostruire la sua contabilità e di redigere finalmente un bilancio, funzionale a rendicontare il deficit patrimoniale che non meraviglierebbe alcuno se sfiorasse il miliardo di euro. Tutto questo vale a dimostrare l’inadeguatezza delle misure individuate dal Governo, tendenti peraltro ad aggravare il problema piuttosto che risolverlo, buttando così all’ortica altro tempo prezioso, ulteriori milioni di euro (tanti sono gli sprechi che determinerà, tra le «regalie» che distribuisce) e, soprattutto, credibilità verso le istituzioni, con la conseguenza di fare evaporare (qualora ancora esistente) ogni residuale speranza.
Ciò che occorrerebbe e non si fa
La Calabria per risorgere dalle sue ceneri ha bisogno di tutt’altro, di una legislazione emergenziale organica dello Stato che assicuri (attraverso l’istituto del commissariamento ad acta, da esercitarsi (bene) a mente della Costituzione e una regolazione di dettaglio (ben) curata dal suo Consiglio regionale:
a) l’imposizione alla classe politica locale di astenersi dal governo della salute;
b) la programmazione di un intervento di risanamento della durata di almeno un triennio, che peraltro integri la sanità con l’assistenza sociale, con l’ineludibile coinvolgimento dei sindaci;
c) la formazione di una governance di alta qualità da destinare alle aziende della salute e al Dipartimento regionale;
d) la generazione di una burocrazia non avvezza alla corruzione ed emancipata dalla sottomissione alla ‘ndrangheta, fornendole i mezzi reali (e non le chiacchiere) e le garanzie protettive;
e) l’individuazione di risorse, eventualmente da rivendicare nei confronti dello Stato, da destinare agli investimenti indispensabili per costruire da capo l’assistenza territoriale funzionale ad insinuarsi nella difficile orografia regionale, garante dell’azione salutare negli oltre 400 Comuni calabresi, la maggior parte dei quali serviti da una viabilità da terzo mondo;
f) (molta) chiarezza sugli appalti in corso e sulle indebite e (molto) diffuse proroghe contrattuali che hanno consentito per anni erogazioni di milioni di euro senza fare ricorso alle prescritte procedure agonistiche sancite dall’ordinamento;
g) la parola fine a quegli importanti appalti divenuti ineseguibili per sopravvenuta incapacità finanziaria e organizzativa delle originarie aziende aggiudicatrici finalizzati a costruire i tre nuovi ospedali della Sibaritide, di Gioia Tauro e di Vibo Valentia, che stanno diventando un ulteriore scandalo e un esempio di come in Calabria venga dilapidato il danaro pubblico senza che nessuno ne risponda;
h) lo sgravio da quegli inutili balzelli plurimilionari assicurati per anni alla Agenas, che meriterebbe piuttosto l’immediato scioglimento a causa della sua perdurante inutilità, e agli advisor, che si sono resi corresponsabili con la loro inadeguatezza dello stato di crisi diffuso del sistema sanitario regionale;
i) il riconoscimento, infine, del ruolo dei sindaci cui riconoscere il ruolo dei veri «commissari» quotidianamente attivi nella rilevazione dei fabbisogni epidemiologici autentici e dei guardiani del loro soddisfacimento concreto e non teorico;
l) l’attivazione a regime della «Conferenza permanente per la programmazione sanitaria, socio-sanitaria e socio-assistenziale», copiata il 2004 dalle altre Regioni e mai resa operativa, ma che potrebbe, oggi più che mai, rendersi parte attiva del doloso silenzio del Consiglio regionale nel legiferare in materia;
m) l’esaltazione del ruolo della Conferenza dei Sindaci, così come prevista nell’art. 6 della L.R. 11/2004, che ha perso progressivamente la sua funzione/missione, per diretta colpevole abdicazione dei suoi componenti e dei relativi organi di rappresentanza.
La svolta che non è tale
A fronte di tutti i problemi e di siffatti possibili accorgimenti da adottare, è invece accaduto che il Governo gialloverde ha approvato un decreto legge che è tutt’altra cosa. Reca, infatti, nella gran parte dei suoi primi dieci articoli – che compongono il Capo I dal titolo «Disposizioni urgenti per il Servizio Sanitario della Calabria» (così denominato quasi a voler giustificare con questo il possesso dei requisiti di straordinarietà e urgenza richiesti dall’art. 77 della Costituzione che invece sembrano non esserci affatto relativamente a quanto disposto nel Capo II, che disciplina materie bisognose di quella diversa e più attenta elaborazione che distingue la legislazione ordinaria) – una serie di misure tendenti ad attribuire ulteriori poteri all’organo commissariale, violando palesemente la Costituzione. Quel commissariamento ad acta già resosi tra l’altro responsabile, nelle sue diverse composizioni della durata complessiva di dieci anni, dell’attuale caos istituzionale e del conseguente disservizio, entrambi pericolosi per la vita delle persone, costrette ad emigrare per trovare altrove la dovuta assistenza.
Non solo. Sfiducia immotivatamente il segmento dell’apparato regionale che ha forse funzionato meglio (la SUA) – largamente evitata per volontà di quel management cui avrebbe dovuto invece farvi ricorso, a cominciare da quello della disciolta per mafia Asp di Reggio Calabria, nei confronti del quale problema non si è registrata alcuna sollecitazione dei commissari ad acta (compreso quello attuale) ad invertire la criticata tendenza – ed elargisce preziose risorse in favore della improvvisata governance aziendale (commissari straordinari) che si insedierà di qui a poco nonché dell’Agenas che, unitamente al nominato advisor, hanno rappresentato le reali costosissime debolezze del sistema sanitario calabrese commissariato.
E ancora. In riferimento al contenuto della gran parte del suo articolato presenta – come già evidenziato – delle palesi incomprensioni quanto all’intervenuto ricorso alla decretazione di necessità e urgenza rigidamente pretese dall’art. 77 della Costituzione, anche in relazione al disposto dell’anzidetto Capo I.
A proposito di quest’ultima, leggendo il decreto, ma soprattutto la relazione illustrativa, si ben comprende quanto essa non sia stata tenuta nella debita considerazione dal legislatore emergenziale. Ciò, particolarmente, in relazione agli artt. 32, 114, 117, 118, 119, 120, 121 e 123, oltre a quelli che si invocano sempre e comunque nei casi di presunta incostituzionalità afferenti ai principi fondamentali (artt. 2, 3 e 5) che, nel caso di specie, ci stanno tutti. Una presunta incostituzionalità che andrebbe ovviamente estesa relativamente alla disciplina che la Carta attribuisce agli obblighi derivanti allo Stato e alle Regioni in materia di equilibrio di bilancio della Repubblica e di sostenibilità del debito pubblico, individuati negli artt. 81, 97, comma 1, e 119, comma 1, ultimo periodo.
E’ mancata anche la condivisione politica
Questo è quanto emerge dalla prima lettura della «opera magna» del Governo che, in questa vicenda, ha visto Matteo Salvini ben lontano dal metterci le mani e la faccia, come è invece solito fare abbondantemente nelle vicende in cui crede, giuste o sbagliate che siano. Una considerazione, questa, che la dice lunga sulla profonda inadeguatezza del «decreto Grillo», tanto da indurre il Ministro dell’Interno a prendere da esso le dovute distanze. Il medesimo non ha infatti speso al riguardo una sola parola nella sua venuta nel reggino del 18 aprile scorso, peraltro finalizzata a deliberare in tal senso, occupandosi esclusivamente di promuovere ivi le sue solite guerre di liberazione da alcune etnie che tanto gli stanno producendo in termini di consenso elettorale. Il tutto perché, da politico navigato qual è, Salvini sa benissimo che il decreto legge voluto dalla Grillo costituirà il primo grande fiasco della Ministra – tanto da poterle costare la poltrona che occupa – e l’ennesimo fallimento di ridare ai calabresi la sanità che spetterebbe loro a mente della Costituzione.
Il decreto in «cifre»
A leggere il decreto legge 30 aprile 2019 n. 35, pubblicato ieri in Gazzetta Ufficiale, se ne scorgono «di cotte e di crude».
Per intanto (ri)commissaria la sanità calabrese per altri diciotto mesi, supponendo di risolvere i problemi irrisolti dal commissariamento medesimo con tempi e misure fantasiosi. Certamente con ricorso a strumenti inadeguati, rappresentativi dei sintomi dell’impotenza, dell’abdicazione del Governo, in quanto tale, dal suo obbligo di intervenire garantendo il risultato preteso sulla carta – mai conseguito sino ad oggi dopo dieci anni di intervento sostitutivo – nel rispetto però dell’autonomia che ineludibilmente compete alla Regione, nel caso di specie esercitata dal Commissario ad acta quale sostituto dei suoi organi e non già come esponente dello Stato/Governo. Lo fa dimenticando il suo fallimento decennale, registrato ai Tavoli di verifica, che ha determinato difficoltà insuperabili ai calabresi impossibilitati a rendersi destinatari di un briciolo di assistenza sociosanitaria degna di questo nome.
L’errore di ipotesi del Consiglio dei Ministri, nell’adottare un simile provvedimento emergenziale, è stato quello di presumere di riportare in Calabria l’assistenza reiterando deleghe in capo al più solito dei soliti commissari e alle forze dell’ordine piuttosto che generare l’inesistente per assicurare una sanità normale e a regime. Ha provveduto ad incrementare assurdamente la governance, introducendo inammissibili figure denominate commissari straordinari – scelti a libera discrezione e anche senza il possesso titoli richiesti per i DG cui viene attribuita una inconcepibile gratifica aggiuntiva annua di 50mila euro, da preporre in continuità per diciotto mesi alla gestione delle aziende sanitarie e ospedaliere. Il tutto, sancito da una norma palesemente contraria a quanto imposto, quale principio fondamentale, dall’ordinamento che assegna peraltro alle aziende della salute l’autonomia imprenditoriale, sui cui esiti esercitare i controlli necessari a cura delle Regioni.
L’autonomia regionale a gogò
A ben vedere, il decreto legge stabilisce il tutto in barba alla autonomia riconosciuta dalla Costituzione alle Regioni, in quanto tali soggette ad essere commissariate – ovviamente a tempo (molto) determinato – esclusivamente nel caso in cui i suoi organi (Giunta, Presidente e Consiglio non in sede legislativa) non fossero in grado di assicurare il «rispetto delle norme ….. ovvero quando lo richiedono… in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali». Una emergenza istituzionale, questa, che rintraccia la sua ratio costituzionale nel suo limitato lasso di tempo di durata, giustificativo per l’appunto del commissariamento, e nella temporanea inadeguatezza degli organi regionali a risolverla. E non già, come accade in Calabria (ma anche in Campania e in altre Regioni che l’hanno subito), con sostituzioni commissariali di durata ultradecennale, e comunque superiori ai mandati legislativi. Un accaduto che andrebbe di certo approfondito anche ad opera della Consulta in relazione all’intervenuto durevole «esproprio» effettuato dalle gestioni commissariali (molto) pluriennali, atteso che le stesse presenterebbero evidenti lesioni rispetto al quadro istituzionale fissato, come anticipato, dall’art. 114 della Costituzione e quindi, dai successivi artt. 121 e 123.
La critica e l’autocritica che si confondono
Nella sostanza, il «decreto Grillo» si limita a dissentire dall’operato dei commissari ad acta intervenuti sino ad oggi in Calabria tanto da (re)imporre loro (im)precisi adempimenti a scadenza fissa da concretizzarsi attraverso controlli da esercitarsi semestralmente sul sistema aziendale. Un intervallo temporale ricorrente nel testo del quale francamente non si comprende affatto né l’utilità della previsione e né tampoco la sua corretta eseguibilità nell’arco dei diciotto mesi di totale ulteriore commissariamento del sistema sanitario calabrese, resa impossibile dalle attuali organizzazioni aziendali prive di quella contabilità analitica senza la quale ogni verifica rimarrebbe ancorata ad inutili esercizi di mera teoria.
Con la nomina e la preposizione in capo alle aziende della salute degli anzidetti commissari straordinari, il servizio sanitario regionale sarà pertanto, per tutto l’arco di tempo previsto, reso orfano della direzione manageriale aziendale imposta dall’ordinamento secondo rigide regole, affidata in capo ai soggetti individuati a mente del d.lgs. 171/2016 e non già nominati con la massima discrezionalità dal commissario ad acta governativo, così come invece saranno in loro vece i neoprevisti commissari straordinari dal medesimo (troppo) liberamente selezionati, ai quali sarà peraltro riconosciuto un trattamento economico quasi doppio rispetto a tradizionali direttori generali aziendali.
La storia, l’unica che si condivide
Quanto alla relazione illustrativa – al di là di una certa parzialmente condivisibile cronologia dei fatti e dei provvedimenti che hanno scandito un decennio di commissariamento conseguente ad anni di gestione allegra e irresponsabile della sanità calabrese condotta da tutti i decisori via via incaricati a diverso titolo – vengono in essa pedissequamente riprese, in un collage non degno di una autorità governativa, le solite precarietà economiche ed erogative. Gravi vulnus nei confronti delle quali l’Esecutivo in carica ha tuttavia glissato con oltre un anno di mancato impegno.
Le soluzioni che si trascurano e la doppia morale
A fronte di tutto questo si è infatti registrato per ben 13 mesi, da parte del governo Conte, un colpevole silenzio provvedimentale, fatto salvo il parto del topolino di inizio d’anno, di nomina del commissariato ad acta. Un parto peraltro venuto anche male, dal momento che – al di là di qualche ben mirato scorrimento di graduatorie in ambiti non affatto necessari alla erogazione della salute – il commissariato non sta affatto dando buona prova di sé, fatta eccezione per qualche blitz esibizionistico e auto promozionale ma non certamente produttivo di alcun miglioramento erogativo della salute.
Un commissariamento, quello in carica, che vede tra l’altro al proprio interno qualche decisore di ieri – produttivo a suo tempo di oltre 125 milioni di perdite da bilancio realizzate in tre anni (2005: € – 24.588.809; 2006: € – 33.754.057; 2007: € – 66.437.508; quota 2008: da approfondire!) nell’allora Asl cui era stato preposto – quasi a contraddire nell’occasione il vecchio e condividibile principio, fortemente sostenuto dal M5S, di non condividere la nomina dei Presidenti di Regioni a commissari ad acta perché incompatibili con la loro trascorsa responsabilità di avere contribuito a determinare le cause generative del bisogno di intervento sostitutivo del Governo, ex art. 120, comma 2, Cost.
Quindi, all’affermazione del vice premier Luigi Di Maio che «il Governo si riprende la sanità» calabrese occorre ricordare ove mai – sottolineando al medesimo che il Governo già la esercita da dieci anni e male, ma rispettando (consentendole però impropriamente la nomina dei DG) l’autonomia regionale – che, nel caso di specie, la si consegna inadeguatamente. A chi l’ha abbondantemente co-esercitata a Crotone a partire dal 2005 – nel periodo di maggiore determinazione del deficit patrimoniale regionale, antecedente al commissariamento di protezione civile – contribuendo abbondantemente a generare pro quota il danno cui si tenta ancora oggi di dare rimedio, tuttavia non riuscendoci.
Come dire, ciò che si professa sotto il profilo delle tutele pubbliche vale solo nei confronti degli altri!
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