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La trama dei clan vibonesi tra pentiti, scomparse e destini incrociati

È ancora mistero sulla sorte di Bartolomeo Arena e Antonio Pardea. Di quest’ultimo, che si era già reso irreperibile nel 2010, parlano i collaboratori di giustizia Moscato e Mantella. La lettera al…

Pubblicato il: 04/05/2019 – 11:10
La trama dei clan vibonesi tra pentiti, scomparse e destini incrociati

di Sergio Pelaia
VIBO VALENTIA
Il filo che lega i destini di protagonisti e comparse della scena criminale vibonese sta generando una trama che continua a intricarsi sempre di più. L’ultimo rebus da risolvere per gli inquirenti è la scomparsa di Antonio Pardea, 32 anni, e Bartolomeo Arena, 43 anni, di cui si sono perse le tracce ormai da quattro giorni. Probabilmente erano insieme, lo scorso 30 aprile, quando l’auto di Arena ha raggiunto la zona del bivio Angitola, nei pressi dello svincolo autostradale di Pizzo. E proprio lì la piccola Toyota è stata ritrovata, chiusa e senza apparentemente nulla di sospetto, mentre di loro non c’è più nessuna traccia. I due hanno storia e profili diversi, ma in comune avrebbero la vicinanza agli ambienti criminali della città, un sottobosco ‘ndranghetista che certamente è in subbuglio ormai da tempo per le dichiarazioni dirompenti dei pentiti Andrea Mantella e Raffaele Moscato.
GLI SCOMPARSI Antonio Pardea è giovane, ma ha un cognome che ha Vibo pesa e ha già sulle spalle carcere e condanne. Attualmente è un sorvegliato speciale e ha l’obbligo di soggiorno a Vibo, ma in passato è stato condannato per associazione mafiosa ed estorsione aggravata. Appartiene alla famiglia dei “Ranisi”, la cosca storica che ha dominato Vibo fino agli anni 70 e che poi ha ceduto potere ad altre famiglie rimanendo comunque presente e attiva nel capoluogo.
Bartolomeo Arena ha undici anni più di Pardea ma ha un curriculum molto meno pesante: vent’anni fa è stato accusato di una sparatoria e oggi, secondo gli inquirenti, graviterebbe nell’orbita dei clan. Nel suo passato c’è un trascorso inquietante: suo padre, Antonio, nel 1985 è svanito nel nulla, vittima, come decine di altri nel Vibonese, della lupara bianca.
IL GIALLO Il rebus davanti a cui si trovano gli inquirenti passa obbligatoriamente per due ipotesi. Secondo molti i due potrebbero essersi allontanati volontariamente, magari per sfuggire ad eventuali arresti che potrebbero scattare alla luce delle rivelazioni dei pentiti, o magari per paura che quelle stesse dichiarazioni possano far venire alla luce qualcosa su di loro che doveva rimanere segreto. Il ritrovamento dell’auto, intatta, in un luogo che è un crocevia per i viaggiatori calabresi – non ci sono solo l’A2 e gli scali di Lamezia poco distanti, ma da lì passano molti dei bus privati diretti al Nord – farebbe propendere per questa ipotesi. Lo stesso Pardea, tra l’altro, nel giugno del 2010 si era già reso irreperibile per poi venire arrestato quattro mesi dopo a Galatro, nel Reggino. Ma nessuno si sente di escludere che qualcuno li abbia fatti sparire per regolare qualche conto alla maniera dei clan vibonesi e angitolani. O che loro abbiano voluto far credere questo.
I PENTITI Andrea Mantella, picciotto cresciuto nel clan Lo Bianco ma divenuto ben presto un “trequartino” con un suo gruppo autonomo rispetto ai Mancuso, parla di Pardea nei verbali che sono finiti nell’inchiesta “Rimpiazzo” contro il clan dei Piscopisani. L’unico riferimento, nelle parti dei verbali non omissate, riguarda un’intimidazione avvenuta a Bivona: su ordine di Ciccio Scrugli, cognato e braccio destro di Mantella, Pardea secondo il pentito avrebbe sparato alla finestra della villetta di Nicola Barba, un altro degli arrestati nella stessa operazione. E un passaggio su Pardea lo fa anche Moscato, che dei Piscopisani era uno degli esponenti di peso: il boss delle Preserre Bruno Emanuele, racconta il pentito (ne abbiamo scritto qui), ce l’aveva con Pardea perché aveva inviato una lettera a Pantaleone Mancuso “Scarpuni” per fargli sapere che lui non c’entrava niente con la faida tra i Piscopisani e Patania. Questi ultimi erano in mano a “Scarpuni”, quindi quella lettera fu vista dai clan insofferenti ai Mancuso come un segno di debolezza e di deferenza, specie da parte di chi era invece vicino al gruppo “autonomista” di Mantella.
LA STORIA Fin dal Dopoguerra i Pardea sono stati i custodi della tradizione ‘ndranghetista a Vibo e hanno dominato la scena fino agli anni 70. Secondo molti hanno goduto anche di favori di politici che hanno fatto carriera per accrescere i loro interessi economici in città. Negli anni però anche altre famiglie si sono affacciate sul panorama criminale locale e fino a un certo punto a mantenere la stabilità fu il vecchio boss Antonio Zoccali. Alla sua morte, nel 1977, gli equilibri saltarono e alla fine ad avere il sopravvento fu la famiglia dei Lo Bianco, che avrebbero mantenuto il predominio nei decenni successivi grazie all’appoggio dei Mancuso. I quali, anche grazie a quella nuova geografia criminale nel capoluogo, e ovviamente agli appoggi pesanti dei Pesce e dei Piromalli nella Piana, divennero la cosca madre della provincia. Ma un ciclo si è evidentemente chiuso con la morte di due boss storici di Vibo, i cugini omonimi – e non di rado in contrasto tra loro – Carmelo Lo Bianco “Piccinni” (il capostipite, morto nel marzo 2014 a 82 anni) e “Sicarro”, morto a 71 anni a dicembre del 2016. Il figlio di quest’ultimo, Nicola, nel 1997, ad appena 28 anni, è rimasto vittima di lupara bianca mentre il padre era in carcere: la sua auto fu ritrovata intatta nei pressi della biblioteca comunale.
LA COSCA MADRE E I CLAN AUTONOMISTI L’ascesa di Mantella dopo il suo distacco dai Lo Bianco ha cambiato la storia criminale vibonese. L’ex boss oggi pentito non accettava che i soldi delle estorsioni dovessero andare a Limbadi, non voleva essere parte di un clan che era solo un satellite del pianeta Mancuso. Così il predominio del clan di Limbadi è stato minato nel nuovo millennio dall’alleanza che Mantella ha poi stretto con i Piscopisani, i Bonavota di Sant’Onofrio, gli Emanuele delle Preserre e i Vallelunga delle Serre. Un cartello di clan che aveva solidi agganci con la “mamma” della ‘ndrangheta nella Locride. Dall’operazione “Crimine” è infatti emerso come alcuni “locali” della provincia non fossero sotto Vibo – e quindi sotto i Mancuso e sotto il mandamento tirrenico – ma rispondessero direttamente al “governo centrale” della ‘ndrangheta di Polsi in cui, probabilmente (lo abbiamo raccontato qui), diversi boss di peso della Jonica non vedevano di buon occhio lo strapotere del casato mafioso di Limbadi. (s.pelaia@corrierecal.it)

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