di Michele Presta
COSENZA Bisogna riavvolgere di molto il nastro. Peppino Ruffolo e Massimiliano D’Elia sono l’uno di fronte all’altro. È tarda notte, le 2.45 – è annotato in un verbale di polizia –; D’Elia lavora nel servizio di sicurezza in un pub di Rende e Ruffolo si presenta con Andrea Molinari, un suo amico. Partono dei colpi d’arma da fuoco: Massimiliano D’Elia è ferito e tra i due si accende una rivalità che finirà solo nel 2011, il 22 settembre per la precisione, con la morte di Giuseppe Ruffolo. A distanza di 7 anni il caso si riapre con l’arresto di D’Elia e Roberto Porcaro (qui la notizia) quali principali indiziati del delitto a colpi di calibro 7,65 che si è consumato a via degli Stadi. Il primo come esecutore materiale dell’omicidio, il secondo come mandante, un comando che poteva permettersi di far eseguire visto che per i magistrati antimafia di Catanzaro è tra i vertici del gruppo criminale Lanzino-Patitucci.
LA SPARATORIA AL PUB Motivi personali o motivi criminali? Prevalgono i secondi, ma il pubblico ministero Camillo Falvo, nell’inchiesta, batte le due piste. Parte dall’evento più datato nel tempo: quell’attentato al pub che si concluderà con la condanna, in primo grado, di Andrea Molinari a 10 anni di reclusione nonostante Giuseppe Ruffolo avesse nel corso del processo testimoniato in suo favore. Passano tre anni da quel verdetto e cinque giorni prima che la Corte d’Appello di Catanzaro lo confermasse, Giuseppe Ruffolo e Carmine D’Elia (padre dell’imputato, ndr) se le danno di santa ragione. «Mattia Pulicanò (collaboratore di giustizia un tempo appartenente al gruppo Lanino-Patitucci, ndr) ha spiegato che tra Giuseppe Ruffolo e Massimiliano D’Elia non correva buon sangue perché, a causa della sparatoria avvenuta nella notte del giugno 2006, era stato incriminato un amico di Giuseppe Ruffolo, che Massimiliano D’Elia sapeva essere innocente ma che aveva lasciato condannare omettendo di riferire all’autorità giudiziaria quanto a sua conoscenza». Il gip però, nella documentazione in cui ricostruisce l’indagine della Dda di Catanzaro, annota anche come Pulicanò riferisce di aver saputo che Massimiliano D’Elia, appena scoperto del pestaggio del padre da parte di Ruffolo, «si armò di una pistola, si è fatto prestare un ciclomotore da un amico, e ha rintracciato Giuseppe Ruffolo, ammazzandolo». È un altro dei pentiti eccellenti della criminalità cosentina che dà al delitto questa chiave di lettura. «Ernesto Foggetti – riportano i documenti – ha specificato di avere appreso da Gennaro Presta che Massimiliano D’Elia, soggetto vicino a Roberto Porcaro, per il quale vendeva sostanze stupefacenti, “e quindi (vicino) alla cosca Lanzino”, aveva ammazzato Giuseppe Ruffolo, a seguito di una lite avvenuta tra i due nel 2006 nella discoteca».
LO SGARRO USURAIO Le cose però cambiano quando inizia a vuotare il sacco Daniele Lamanna. È lui che per primo parla del giro di strozzinaggio messo in piedi da Ruffolo e che cambia la prospettiva, per gli inquirenti: «La causa dell’omicidio s’individuava nella spartizione di somme di denaro legate al giro di usura». Lamanna scopre tutto da Pasquale Bruni che, scrive il gip, «gli aveva riferito che stava impiegando somme di denaro per pagare le spese di mantenimento di “Massimino”, il quale si era dovuto allontanare da Cosenza dopo aver ucciso Giuseppe Ruffolo». Anche due recenti collaboratori di giustizia, Vincenzo De Rose e Francesco Noblea, da fonti differenti riferiscono agli investigatori di aver saputo che l’assassino sia Massimiliano D’Elia, ma è Luciano Impieri ad aggiungere dettagli ulteriori. «Secondo quanto riferitogli da Ariello Salvatore – è scritto nell’ordinanza –, Ettore Lanzino mal tollerava l’autonomia di Ruffolo nel settore criminale dell’usura, e in tale causa devono individuarsi le ragioni dell’omicidio. A dimostrazione di ciò, Roberto Porcaro si era intestato i meriti di tale omicidio di fronte al boss Lanzino, dicendo di averlo compiuto personalmente, quando invece l’esecutore era stato Massimo D’Elia, poi prelevato da Antonio Illuminato». Lamanna tira in ballo Porcaro e anche Kopaczynska Edyta Aleksandra, compagna del boss Michele Bruni, ha specificato che «Umberto Arena, l’uomo che le faceva da autista e che faceva parte del gruppo di Bruni, le aveva detto che l’autore dell’omicidio Ruffolo si era rifugiato in America e che l’autorizzazione per l’uccisione gli era stata data da Roberto Porcaro».
LA RIUNIONE CRIMINALE L’usura sul Tirreno non poteva essere fatta, a Cosenza l’argomento non era tabù. Una soluzione si poteva trovare. Il collaboratore di giustizia Giuseppe Montemurro ha raccontato di aver partecipato a una riunione criminale proprio per parlare di estorsioni da fare sul Tirreno vista la quantità di lavori che venivano fatti. «In quell’occasione veniva detto a Montemurro Giuseppe – annota il gip – che, a breve, gli avrebbero presentato Massimiliano D’Elia, il quale era entrato nel gruppo criminale “grazie all’ottimo lavoro fatto con l’omicidio Ruffolo”. Nel corso di quella riunione, Roberto Porcaro aveva spiegato agli astanti che Massimiliano D’Elia era stato picchiato varie volte da Giuseppe Ruffolo e che aveva organizzato da solo l’omicidio e che poi era mancato da Cosenza per circa tre mesi».
DOPPIO MOVENTE Massimiliano D’Elia è l’uomo giusto. Da una parte vicino a Roberto Porcaro, dall’altra animato da risentimenti personali. La sintesi è nel racconto di Giuseppe Zafonte che «propone una ricostruzione che tende a conciliare la duplicità del movente (personale, ovvero criminale): in particolare ha affermato (oltre all’individuazione del mandante in Porcaro Roberto) che Ruffolo Giuseppe era stato ucciso perché inviso al clan Lanzino, in quanto aveva formato un suo autonomo giro di usura; il compito di eseguire l’omicidio era stato attribuito a Massimiliano D’Elia, proprio perché aveva già avuto dissidi, sul piano personale, con Giuseppe Ruffolo». Nonostante all’epoca dei fatti fosse molto giovane, Porcaro è ritenuto uomo di spicco della consorteria criminale, per questo, visto l’ottimo rapporto con Massimiliano D’Elia, ritengono che l’ordine sia potuto arrivare da lui. Una ipotesi avallata dalle tante chiamate a «correità» fatte dai collaboratori di giustizia. Nessun dubbio neanche sulla premeditazione per il gip Paolo Mariotti. Il giudice, infatti, ha osservato come l’arrivo di D’Elia contromano lungo via degli Stati e lo stop improvviso prima della raffica di colpi contro Ruffolo, sia stata un’azione programmata e lontana da qualcosa di istintivo. (m.presta@corrierecal.it)
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