Mio nonno, Salvatore Scalzo, come altre centinaia di migliaia di italiani, partecipò alla seconda Guerra Mondiale. Colpevolmente, non conosco dettagli molto precisi dei luoghi di quegli anni di sofferenza, ma mi fu detto che, seppur per un periodo non troppo lungo, il nonno fu “rinchiuso” in un campo di prigionia sul suolo inglese. “Rinchiuso” forse non è la parola giusta. Perché mio nonno raccontava di essere stato benissimo in quei campi e che l’atteggiamento degli inglesi verso quei prigionieri Italiani era assolutamente benevolo e “liberal” per molti aspetti. Nel senso che i prigionieri venivano rifocillati benissimo e persino lasciati liberi, in molti casi, di camminare nei centri abitati. Fu davvero strano scoprire da Caroline, mia moglie, di nazionalità inglese, che suo nonno, soldato della marina inglese, dopo essere quasi miracolosamente sopravvissuto all’affondamento della SpringBank nel 1940, tra le sue molteplici mansioni in tempo di guerra, aveva anche vigilato presso alcuni campi di prigionia e che si era anche “occupato” di prigionieri italiani. Anche in questo caso il livello di dettaglio disponibile è molto approssimativo, ma fa uno strano effetto immaginare che i nostri due nonni si siano potuti incontrare. Da controllore e controllato. Da vigilante e prigioniero di guerra. Ruoli, imbracature formali che, a giudicare dai racconti di mio nonno, si scioglievano nell’umanità spontanea che può scaturire da un confronto visivo e fisico tra due uomini in carne ed ossa, pezzi di umanità e storia comune. Pronti a scambiarsi un sorriso e qualche messaggio bonario o ironico a gesti in un inglese pasticciato, in un’oasi lontana dalle guerre e dall’aggressività diffusa oltre il Canale. Forse non è neppure importante se quell’incontro sia avvenuto o meno. Quasi certamente no. Ma è bello sapere che sarebbe potuto essere potenzialmente possibile.
Più o meno 70 anni dopo i nipoti del vigilante e del prigioniero, entrambi tirocinanti nelle istituzioni dell’Unione Europea, si sarebbero imbarcati in un percorso di vita comune.
Non credo che la retorica delle grandi idee, dei grandi principi, dei grandi e astratti sentimenti sia molto efficace per spiegare o ancora meglio convincere, soprattutto le nuove generazioni, circa l’importanza dell’Europa. Anzi non vi è dubbio che la realpolitik possa offrire strumenti ben più convincenti e persuasivi in tal senso. Pur tuttavia, quando mi tocca raccontare perché io mi senta Europeo, non posso prescindere da questa storia, anzi da questo affresco visivo. Un affresco senz’altro tutto personale, ma tuttavia rappresentativo di qualcosa che va ben oltre la mia persona e la mia famiglia.
L’Europa ha riunito sedicenti vincitori e vinti che si sono succeduti per centinaia di anni di storia, in campi di macerie e sangue. È il tentativo non solo di custodire quell’umanità, storia e grandi valori comuni, nascosti dietro le imbracature di ruoli secolari, attraverso un percorso istituzionale e comunitario. Ma, addirittura, di salvare quella storia e quei valori dall’autodistruzione o dall’irrilevanza.
Si può e si deve discutere di come il percorso istituzionale e comunitario Europeo debba evolvere o debba essere corretto o debba essere rilanciato. Perché l’Europa è un tentativo necessariamente umano e politico, imperfetto e perfettibile. Ma credo fortemente che tutto questo dibattito debba essere subordinato a un atto primigenio di appartenenza ad un contesto storico che ha liberato gli animi Europei dal dispiegamento aggressivo e letale dei propri ruoli e restituito una dimensione più duratura di umanità, dialogo e costruzione comune. E’ l’aggiornamento di quell’atto di appartenenza, la regolarità di quell’atto di appartenenza a segnare le condizioni del prosieguo di questo straordinario sforzo comune.
Ecco, la partecipazione alle Elezioni Europee è tutto questo. Che viene prima ancora di ogni scelta elettorale, ciascuna legittima. In un tempo storico che segna il senso dell’urgenza.
Arrivederci al 10 giugno per il prossimo appuntamento di Caffè Europe.
x
x