di Miriam Guinea
CASTROVILLARI Due sono le coppie di sedie che occupano i lati della scena. Due sono le coppie di persone che occuperanno quei posti. Due sono le donne e due sono gli uomini. Due storie che si incrociano per toccarne una terza che vi entra lentamente, ma con una forza tale da sconvolgere gli equilibri della narrazione. “Noi non siamo barbari” (la foto sopra è di Angelo Maggio), è la nuova produzione firmata Scena Nuda (Reggio Calabria) e coprodotta da La Contrada. Centro di produzione nazionale di Trieste. Lo spettacolo è andato in scena in prima nazionale martedì sera nella Sala Consiliare di Castrovillari, all’interno della rassegna Primavera Dei Teatri, festival sui nuovi linguaggi della scena contemporanea fondato da Scena Verticale che, quest’anno, giunge alla sua 20esima edizione.
Lo spazio scenico è scarno, bianco, composto dalle già citate sedie e un tavolo che presterà la sua forma a una Tv, un bunker e a se stesso. La narrazione va oltre lo spazio riservato agli occhi dello spettatore e abita nei luoghi che i quattro protagonisti evocano con le proprie parole, conquistando le quinte o, semplicemente, sedendosi. Ogni sedia, infatti, rappresenta un’uscita e un cambio di scena in cui, ogni attore vive l’assenza nella sua presenza. Mario e Barbara (Teresa Timpano e Saverio Tavano), sono una coppia borghese che si prepara a festeggiare il compleanno di quest’ultima. Tra discorsi distratti e futili, si accorgono della presenza dei nuovi vicini, Linda e Paul (Stefania Ugomari di Blas e Filippo Gessi). La conoscenza tra i quattro avviene attorno a un aperitivo consumato di corsa nella casa dei primi. Sedie a cerchio, e un discorso serrato svela elementi delle rispettive vite: Linda e Paul sono fratellastri e quindi potrebbero procreare; Barbara è una cuoca vegana e Mario crea suoni per auto elettriche.
Spezza e determina le sorti, un’improvvisa visita a casa di Mario e Barbara: un ospite a cui bisogna dare un’identità. Si pensa sia un senza tetto a cui prestare soccorso, ma la scoperta di trovarsi davanti a un profugo determina una spirale di scontri tra i quattro, che ne ribalta i ruoli e permette alla vera natura umana di emergere. Cercando la tranquillità da ciò che è estraneo e spaventa, Paul costruisce un bunker in casa; Mario – sempre molto accomodante rispetto ai conflitti – cerca di mediare la natura ospitale della moglie dalla ferocia dei vicini che vorrebbero lo straniero in strada. L’epilogo è dei più tragici e non svelerà né concluderà una storia in struttura circolare, in cui ciò che vediamo all’inizio si ripresenta alla fine, senza soluzione. Ben interpretato e giocato con estrema precisoni dei dialoghi, lo spettacolo coinvolge e convince.
Andrea Collavino, regista della pièce, dà movimento alle parole di Philipp Löhle, drammaturgo quarantenne tedesco autore di questo testo. Non a caso, la rappresentazione si può legare a quel filone teatrale del Kammerspiel dell’inizio del secolo scorso. Spazi piccoli e azioni svolte in ambienti raccolti, grazie al teatro da camera la distanza con lo spettatore è quasi annullata ed è lì che la dimensione psicologica dei personaggi è messa sotto una lente d’ingrandimento. Compenetra la matrice teatrale una struttura linguistica che sembra aver preso in prestito dal cinema (Carnage di Roman Polanski, 2011).
I dialoghi serrati e asfissianti, vengono fagocitati con una velocità continua. Le battute rimbalzano come una palla verbale da un punto all’altro della scena e questa tensione si prenderà poche pause durante la rappresentazione. La maschera malcelata della borghesia tende a coprire una natura schiava delle primordiali pulsioni: rabbia, supremazia, sopraffazione. Ci si scosta da ciò che non si conosce. Si mettono in piazza i pregiudizi e la paura del diverso; l’accoglienza volta le spalle alla necessità, perché ciò che conta è salvarsi, poco importa chi sarà a pagarne le spese: «Riempiamo le case di quelli che hanno problemi», dirà Linda alla ricerca di una disperata soluzione. «Il compromesso è il fondamento della democrazia», si sentirà dire in scena. Il cervello occidentale è pensato per affermare il nostro Io. La fiducia, ormai fatta a pezzi in molteplici forme, è messa alla porta e di lei rimane solo una macchia di sangue su una TV divelta dal muro. (redazione@corrierecal.it)
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