di Alessia Candito
REGGIO CALABRIA Le riunioni in cui è stata decisa la partecipazione della ‘ndrangheta alle stragi. Quelle del Consorzio milanese «che era il potere assoluto». I rapporti con i servizi. Nino Fiume è uno che sa. Per lungo tempo è stato, di fatto, un De Stefano.
DE STEFANO DI FATTO In gioventù, angelo custode dei figli di don Paolino per volere dello stesso boss perché «aveva paura che Carmine si facesse spinelli e frequentava strane compagnie», fidanzato storico di Giorgia, unica figlia del patriarca, e braccio destro del capocrimine Giuseppe, tanto da avere «delega a parlare in nome e per conto della famiglia», Fiume è stato il primo e l’unico a rompere il muro di omertà che da sempre ha protetto il nucleo duro dello storico casato di Archi. E sono questi i segreti che è stato chiamato a raccontare al processo “’Ndrangheta stragista”.
L’ENCICLOPEDIA DEGLI ARCOTI Il suo bagaglio di conoscenze è vasto, variegato, forse così tanto da dare molti passaggi per scontati, nonostante i continui richiami del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo (nella foto). Sa di affari criminali e affari personali, di rapporti di ‘ndrangheta e rapporti personali, di amori, amanti, amici, «di uno che non doveva vedere Franco (Coco Trovato) che si incontrava con Gianni Versace». Nel suo racconto mischia pagine fondamentali nella storia delle organizzazioni criminali italiane, come gli incontri – prima milanesi, poi calabresi – in cui la ‘ndrangheta ha deciso di aderire alla strategia stragista, a episodi assai personali, come «il bell’orologio regalato a Luigi (Mancuso)». Nelle sue dichiarazioni salta senza soluzione di continuità dall’uno all’altro.
Il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo ci prova a rendere il suo racconto più fluido, spesso lo richiama e altrettanto spesso quasi perde la pazienza, lo incalza, lo rimprovera e gli fa puntualizzare i tanti passaggi che dà per scontati. Ed è così che Fiume comincia a raccontare quello che sa.
QUESTIONE DI DELEGA Dice degli assetti della ‘ndrangheta di Archi dopo la morte di don Paolino e della “riforma” seguita alla seconda guerra fra clan in città. Racconta della «delega» di Crimine che Pasquale Condello «aveva avuto da Paolo De Stefano e gli consentiva di parlare in suo nome, perché Condello è nato destefaniano e lo è stato anche durante la guerra per certi aspetti» e di come poi l’abbia passata a Giuseppe De Stefano, preferito al fratello Carmine. Aggiunge, quasi con soggezione, che per un periodo, quando i due fratelli erano uno in carcere ed uno latitante, quella delega l’ha avuta anche lui, sebbene “condizionata” dalla presenza di Vincenzino Zappia e Giovanni De Stefano, entrambi incaricati di seguire ben precisi rami d’attività.
IL NUOVO CONSORZIO È questa la presentazione che, fra mille divagazioni, Fiume fa di se stesso. Ed è questo il ruolo che spiega perché possa parlare di quel consorzio milanese che fin dagli anni Settanta ha visto insieme uomini di ‘ndrangheta, Cosa nostra, camorra e Sacra corona unita, nato come federazione per gestire il contrabbando di sigarette e diventato – dice il pentito – «il potere assoluto, che dominava su tutti». Forgiato fra l’86-87, racconta Fiume, «aveva il monopolio di tutto lo stupefacente che girava in Italia, e tutti lo dovevano comprare da loro». In pochi avevano diritto a farne parte e fra loro c’erano i fratelli De Stefano. «Per riconoscersi avevano tutti lo stesso bracciale. Il capo aveva un girocollo, che era di Mico Papalia. Una volta lo ha lasciato anche a Peppe De Stefano. Al tavolo, si poteva parlare solo se avevi queste cose».
OMICIDI SU COMMISSIONE E alcuni omicidi, come quello del figlio di Cutolo, potevano essere decisi solo dal consorzio. «E il padre – sottolinea Fiume – non ha detto nulla perché era un altro di quelli che i servizi andavano a trovare in carcere. I suoi uomini giravano con il tesserino dei servizi». O l’omicidio Mormile. E «quella è una cosa brutta, mannaja», dice Fiume. «Era tutta una cosa programmata dal consorzio, doveva avvenire in contemporanea con il fatto di Bologna. Ma il consorzio eseguiva ordini di altri». Altri, cioè i servizi di sicurezza che con i boss erano in stretti rapporti e che al pentito sembrano fare ancora paura.
GENTE CHE TI AMMAZZA E NON TI PAGA «In passato – racconta Fiume – quando mi è stato chiesto ho evitato di rispondere, avevo paura. Non so quanti di questi sono ancora in giro, ma è gente che poteva trovarti ovunque, raggiungerti ovunque. Io ho avuto a che fare con quelli puliti, con gli uomini dei servizi di sicurezza che sono conosciuti a Reggio. Ma se ‘Ntoni Gambazza che era un capo, Mico Alvaro che era un capo, io sono con Giuseppe De Stefano e facciamo anticamera da Rocco Papalia perché suo fratello è con queste persone che non può vedere nessuno… Il tramite di queste persone erano lui, ‘Ntoni Nirta, Mazzaferro quello di Gioiosa, avevano contatti diretti con queste persone. Paolo De Stefano era protetto da queste stesse persone, fin da quando il primo consorzio in Lombardia gestiva il traffico di sigarette, poi ci ha litigato e suo figlio ha detto “I servizi fanno la guerra e i servizi fanno la pace. I servizi ci ammazzano e non ci pagano”».
VISITE IN CARCERE Ma a garantire la linea di continuità con quel mondo – lascia intendere Fiume – era Mico Papalia, perché «lui e i De Stefano erano la stessa cosa». E che avesse rapporti con i servizi era palese – spiega il pentito – perché «tutte le volte che Mico Papalia ha avuto un permesso premio l’ho incontrato. E questo è strano. Noi lo sapevamo prima perché venivamo avvertiti e io e Giuseppe De Stefano andavamo da lui, o a Platì o a Milano. Perché per lui i figli di Paolo De Stefano erano come figli suoi. Papalia era uno di quelli che stavano sull’aereo. Il rapporto con i servizi io l’ho constatato personalmente. Una volta eravamo con lui e si è avvicinata una macchina ed ha detto «questi sono quelli che mi vengono a trovare in carcere». E De Stefano ha specificato: i servizi. Lui non ha mai potuto parlare di queste cose per questo. E lo stesso è stato per Mico Libri. Li andavano a trovare in carcere».
LOGGE BUONE E LOGGE SPURIE Ma se i De Stefano avevano per un periodo storico appaltato ad altri i contatti con i servizi, di quelli con la massoneria si sono sempre occupati loro. Fin dai tempi di don Paolino, che «era in una loggia con Nitto a Catania, collegata a una di Brescia e ad altre». Il riferimento sembra essere a quella superloggia con sogni eversivi fondata da Freda durante la sua latitanza a Reggio Calabria, collegata alla gemella che nella città dell’elefante era stata fondata da Sindona. Ma Fiume sul punto non approfondisce. Eppure sa, sa molto. Sa che l’avvocato Giorgio stava «sia in quella normale, che nelle logge spurie», ma soprattutto conosce la rete a cui le logge hanno dato accesso. E quando ha iniziato a collaborare ci ha accompagnato per un sopralluogo anche un funzionario di polizia. Insieme sono andati in cinque studi di professionisti milanesi «in cui ero stato con Carmine. Uno – ricorda – era vicino alla Zecca dello Stato. Uscendo mi disse “dimentica che siamo stati qua”». E forse anche involontariamente finisce per spiegare il motivo di questi contatti: la necessità di riciclare un quantitativo di soldi che con i vecchi metodi – scontrini in sovrannumero o schedine vincenti – non si riuscivano a smaltire. « Loro avevano società in cui, come diceva l’avvocato Tommasini, “non può entrarci neanche il presidente della Repubblica”. La maggior parte dei soldi di Milano venivano portati in Vaticano da Giuseppe De Stefano e Franco Coco, vestiti da preti»
DI TRENI, AEREI E CLAN È per questo che la ‘ndrangheta non è tutta uguale. «Ce n’è una che può essere paragonata ad un treno con tanti vagoni, e ogni vagone ha il suo capotreno che è il capolocale. Poi c’è il capotreno. E questo è un treno locale bello lungo. Poi c’è il treno ad alta velocità, dove non possono salire tutti, ci vanno solo i capi. Al di sopra di questo treno c’è chi viaggia in aereo, che dirige gli scambi, dirotta i convogli e neanche si vede. Sono state combattute guerre, sono state uccise tante persone e chi lo ha fatto non sa neanche il vero perché». Al procuratore aggiunto le metafore non bastano. A Fiume chiede spiegazioni. Lo incalza, vuole sapere a cosa si riferisca. E il pentito alla fine spiega: «Questo discorso ha a che fare con l’omicidio del giudice Occorsio, con Mico Papalia che ha fatto l’ergastolo da innocente. C’è gente che non può collaborare perché ha preso ordini dai servizi segreti. E quelli ti trovano ovunque» (a.candito@corrierecal.it)
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