di Michele Presta
COSENZA Il paravento davanti al banco dei testimoni impedisce allo sguardo di Franco Pino di incrociare quello di chi siede nell’aula della Corte d’assise del tribunale di Cosenza. Il processo per il duplice omicidio di Marcello Gigliotti e Francesco Lenti catapulta di botto la città bruzia in quelli che sono stati gli anni di piombo della guerra tra clan. Gli anni ’80 sono rimasti solo sulle carte dei verbali della Dda di Catanzaro e nell’orgoglio di chi li ha vissuti come protagonista. «Cos’è questa tenda? Avevo detto che non ci sarebbe stato bisogno», esordisce il pentito Franco Pino ancora prima di dare il buongiorno a tutti. «Una precauzione del tribunale», gli risponde il giudice Garofalo. Accomodato e lasciato nella penombra, il reggente della cosca di ’ndrangheta che ha portato il suo nome non si sottrae alle domane del pubblico ministero Camillo Falvo. Per il suo ritorno in città dopo circa un decennio, si sono mobilitati polizia e carabinieri. Oltre a lui, per il duplice omicidio Lenti-Gigliotti in rito ordinario sono alla sbarra anche Francesco Patitucci e Roberto Pagano, accusato di aver fornito l’arma del delitto. «Mi chiedete tutti se avessi potuto evitare quell’ammazzatina, non posso rispondere. Posso solo dire che in quegli anni non avevo la forza di fronteggiare la scelta che aveva preso Antonio Sena – dice Franco Pino –. È vero gli ho detto “fate quello che volete” quando mi chiesero se si poteva ammazzare. Non potevo fare altrimenti, ero in carcere, con una guerra di ’ndrangheta in corso e rivali potenti da fronteggiare. A Marcello Gigliotti ho provato ad allungargli la vita il più possibile. Non lo volevo uccidere e non lo voleva né Francesco Patitucci, né nessun altro. Poi la situazione era diventata incontrollabile. L’obiettivo era comunque Gigliotti, Francesco Lenti non era mai stato oggetto di discussione».
GIGLIOTTI IL “NERO” TESTA CALDA Chi era Marcello Gigliotti? Alla corte di Franco Pino, per come riferito dall’imputato, ci arriva per tramite di Umile Arturi. «Non era battezzato – racconta Pino – sapevo che aveva questa ammirazione nei miei confronti tanto è vero che approfondii la sua conoscenza quando facemmo un periodo di detenzione comune nell’ex carcere di Cosenza». Gigliotti era vicino ai “neri” della città. Mescolava le idee di Stefano Delle Chiaie ai culti ’ndranghetistici. In lui si confondeva la lotta armata con quella della malavita. «Lui voleva essere libero dalla ’ndrangheta – racconta l’ex boss –. Per avere la mia amicizia attentò senza nessun tipo di autorizzazione alla vita di Carlo Rotundo. Era così, passava dagli attentati di criminalità a quelli contro lo Stato, come quando mise una bomba alla Questura di Cosenza. Avevamo un patto tacito: era libero nelle rapine e nei furti, così autofinanziava la sua attività ma in cambio se la refurtiva era di qualche nostro protetto la doveva restituire, noi lo coinvolgevamo quando c’era da sparare». Il ferro di Marcello Gigliotti era sempre caldo. Franco Pino stesso riferisce come avesse saputo che era stato lui l’autore di due delitti diversi. Il primo a tirare le cuoia fu Francesco Salerno reo (secondo Gigliotti) di fare il filo alla moglie; il secondo Sergio Palmieri, la cui colpa sarebbe stata quella di non aver pagato correttamente i proventi di una refurtiva. «Gigliotti era così. Con Lenti il discorso era invece totalmente diverso. Lui era estraneo a tutte le vicende. Era un ragazzino e all’epoca era molto amico di Antonio De Rose».
LA CELLA NEL TRIBUNALE DI PALMI “Diritto e Medaglione”: nel 1986 Franco Pino aveva la dote più alta della ’ndrangheta calabrese. Un grado che condivideva con Franco Muto e Antonio Sena. Insieme a loro e ad un altro centinaio di imputati fu coinvolto nel processo “Tre Province” che si celebrò nell’aula bunker del Tribunale di Palmi. «Ero detenuto, ma in quel periodo anche Antonio Sena seguiva il processo in cella insieme a me. Lui veniva tradotto solo perché a differenza mia era ai domiciliari. Riuscivamo a scambiare qualche parola e lo stesso accadeva durante le sospensioni quando ai nostri familiari era permesso di portarci un panino o un caffè». Sul finire del 1985 Franco Pino riferisce ad Antonio Sena di comportarsi come meglio crede con Marcello Gigliotti. «Il mio “fate quello che volete” non è stato proprio interpretato, è stato eseguito più come comando», riferisce ad oltre 30 anni dal duplice omicidio. Antonio Sena, incassato il benestare lo comunica agli altri appartenenti della cosca, Francesco Patitucci e Gianfranco Ruà su tutti. «Entrambi con la scusa del caffè vennero in cella all’udienza successiva e dissi loro quello che avevo comunicato ad Antonio Sena».
I QUATTRO SGARRI AD ANTONIO SENA Perché venne decisa la morte di Marcello Gigliotti? Sarebbero una serie di sgarbi fatti soprattutto ad Antonio Sena a decretarne la condanna. Franco Pino, in oltre 5 ore di esame e controesame, prova a metterli tutti insieme. Innanzi tutto la volontà di uccidere Fernando Vitelli. «Era convinto che andasse appresso a sua moglie – spiega Pino –. La morte di Vitelli avrebbe interrotto quell’equilibrio seppur instabile che avevamo trovato con il gruppo Perna-Pranno. Antonio Sena me lo riferì ed io sempre sfruttando i colloqui rapidi nel corso di “Tre Province” riuscii a convincere Gigliotti che non era il caso». Ma se le ire contro Fernando Vitelli Pino è riuscite a sedarle, altrettanto non ha potuto fare quando Antonio Sena gli ha palesato i turbamenti degli appostamenti fatti da Gigliotti sotto casa sua. «Mi chiedevano come facessi a fidarmi, ho iniziato a dubitare quando mi hanno raccontato di aver visto Marcello Gigliotti studiare l’abitazione di Antonio Sena. Giacomo, figlio di Antonio, ci ha raccontato di averlo sorpreso nel cuore della notte vicino la casa di suo padre. Antonio aveva una finestrella da dove si affacciava prima di aprire la porta e probabilmente Gigliotti prendeva le misure per freddarlo proprio in quel gesto di prudenza». L’appostamento però è solo una parte di una serie di sgarri. Ci sono, oltre a questo, le cassette registrate da Marcello Gigliotti e mai ritrovate in cui potrebbero esserci diversi dialoghi con criminali dell’epoca e che sarebbero potute finire da un momento all’altro sulla scrivania del dirigente della squadra mobile Nicola Calipari. Franco Pino è convinto che le audiocassette Gigliotti non le avesse mai registrate, un millantato possesso di materiale in realtà inesistente. «Se nel mese di ottobre-novembre riuscii ad evitare l’uccisione altrettanto non riuscii a fare quando Antonio Sena mi lamentò la mancata restituzione della refurtiva fatta ad una persona che lo aveva contattato per riavere tutto».
IL RACCONTO DEL DELITTO Marcello Gigliotti e Francesco Lenti secondo la magistratura sarebbero stati uccisi a casa di Francesco Patitucci durante un pranzo a base di maiale. «Io ero detenuto, mi spiegarono tutto quando nel mese di luglio ottenni un permesso premio». All’uscita dal carcere di Cosenza il boss venne prelevato da Francesco Patitucci, Gianfranco Ruà, Gianfranco Bruni, Riccardo Amendola e Riccardo Pagano. «Erano in tanti, seppure ci fosse una tregua avevo paura. Mi accompagnarono al pranzo che aveva preparato mia madre – dice Franco Pino – e mi intrattenni con alcuni di loro per sapere come fossero andate le cose sul delitto. Ruà mi disse che aveva sparato a Lenti (il primo a morire dei due) e Patitucci mi disse che gli aveva tagliato la testa». L’uccisione del giovane serviva solo a far parlare Gigliotti, cosa che avvenne ma che non soddisfò i suoi aguzzini. «Amendola aveva portato l’invito a pranzo, il destinatario era soltanto Gigliotti. Lenti non era previsto. Gigliotti era ancora vivo quando venne messo nella sua Fiat Ritmo. Arrivarono a Falconara e lì lo uccisero bruciando i corpi, la macchina e anche l’arma usata». Nel corso del controesame, Luigi Gullo e Marcello Manna (entrambi legali di Patitucci) hanno fatto notare all’ormai ex boss (uscito anche dal programma di protezione) come il giorno del duplice delitto il loro assistito avesse accompagnato la compagna di Franco Pino al carcere di Palmi per il colloquio. «Non lo posso escludere», ha risposto. «Quello che vi ho detto è quello che so. Quando ho scontato la mia pena, Antonio Sena è fuoriuscito dal clan. Io mi sono messo insieme ad altre persone ma finché non iniziai a collaborare con la giustizia fummo tutti d’accordo in virtù della pace fatta con il gruppo Perna-Pranno: dei delitti prima avvenuti prima del 1987 non si doveva più parlare». (m.presta@corrierecal.it)
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