Giorno 18 giugno a Bruxelles l’Istituto Italiano di Cultura ha presentato il numero 500 della rivista “Il Mulino” – “Viaggio tra gli Italiani all’estero”. Essendovi intervenuto ho piacere a condividere coi lettori del Corriere un piccolo resoconto e qualche osservazione, essendo il tema certamente tra i più sentiti per gli Italiani, in particolare per gli Italiani del Sud.
Comincio con il consigliarvi vivamente la lettura del volume perché si tratta di un racconto completo ed efficace sull’emigrazione italiana all’estero. Una pagina complessa e quanto mai aperta della nostra storia. La cosa che più mi piace è che il volume rappresenta bene la complessità del fenomeno migratorio italiano, uscendo anche da luoghi comuni e immagini stereotipate. Emergono così migrazioni di successo e migrazioni fallite. Individui che son convinti di aver trovato mondi migliori e individui che hanno trovato mondi uguali se non peggiori, fatti di precarietà estrema, assenza di tutele e solitudine. E questo è un dato interessante.
Credo che il punto più dibattuto di una serata molto partecipata sia stato senz’altro quello che ha preso spunto dal saggio di Piero Bassetti. Senza entrare nei dettagli, il saggio di Bassetti comunica una nota positiva o quanto meno vede il fenomeno migratorio italiano sotto una luce del tutto costruttiva. Quasi un contributo alle identità ibride tipiche della globalizzazione, che si sganciano dalla ristretta identità territoriale. Con le migrazioni, l’Italia amplierebbe i propri confini fino a farli coincidere con quelli del pianeta terra. Così come avviene per tutte le identità globali. Le migrazioni crescenti disegnerebbero un mondo senza barriere e senza Stati.
Devo dire che non solo io, ma tutti i presenti, siano rimasti scettici rispetto a questa lettura del Bassetti. O meglio rispetto al messaggio che traspare dalle sue pagine. Sarà un po’ di spirito naïve o di pura reazione istintiva, ma a me la migrazione italiana è sempre parsa una tragedia più che un disegno ottimista o rivelatore dei tempi. Quando ti confronti con un numero di partenze annuo che dal 2011 tocca le 115.000 persone, beh, è chiaro che le conseguenze di questa migrazione di massa sono la disarticolazione dei territori e delle realtà locali, di scarnificazione del paesaggio e della vita, e, inevitabilmente anche la nascita e l’accrescimento di profonde diseguaglianze.
Credo che in Italia dobbiamo guardare con occhio critico, attento e molto preoccupato a questo “nuovo” abbandono. E questo significa anche misurare il linguaggio e il messaggio con cui questa migrazione si racconta. Ho fatto due commenti su questa questione specifica nella serata.
Il primo è che la narrativa di oggi è spesso quella di mobilità come scelta. E’ una visione che, se non approfondita, rischia di negare al fenomeno italiano la dimensione della sua drammaticità e di sottrarlo al dibattito e all’azione politica. Non mancano certamente elementi deliberati di scelta nei movimenti delle nuove generazioni; pur tuttavia quando le migrazioni assumono tali dimensioni e si legano a ricollocamenti permanenti, la questione della sola scelta non spiega il fenomeno. Senza fare generalizzazioni e al netto di tante storie specifiche, credo davvero che la gran parte delle migrazioni convivano sempre con un senso inevitabile di costrizione e di rinuncia. Arrivo a dire che, anche nelle migrazioni di successo, nelle grandi rivincite di italiani all’estero, convive un presagio, un fantasma sinistro, latente, che si lega alla negazione di quel diritto, anzi ancor di più, di quel bisogno antropologico dell’uomo a vivere nella terra che lo ha generato. Per di più, al migrante compete un destino di disintegrazione, o meglio, di non piena integrazione con le comunità di arrivo e di partenza. Il migrante ha un piede in due vite. Incapace di cogliere e sintonizzarsi sempre a pieno con quel flusso continuo del divenire di una comunità, che si muove e cambia giorno dopo giorno.
Ecco. Una migrazione di massa non può avere i caratteri della scelta. Fatico profondamente a crederlo e a concepirlo. E’ una parte del corpo che si è staccata in maniera innaturale. E siccome non c’è stata scelta, non c’è indifferenza alla terra di partenza. Inevitabilmente, il distacco non ci sarà mai.
La seconda osservazione è molto legata alla prima. Rimango infatti profondamente convinto, anche in virtù delle considerazioni precedenti, che lo sviluppo compiuto dal nostro Paese chiami all’abbraccio le parti che si sono staccate. E’ nell’incontro generalizzato e diffuso, nella continua comunicazione e cooperazione tra chi è andato e chi è rimasto la chiave di una piena ricostruzione. Uno sforzo che deve investire senz’altro la politica, ma che a mio dire, ancora di più, deve impegnare liberamente gli individui, le associazioni, i gruppi d’interesse. In tal senso, mi preoccupa molto tutto ciò che direttamente o indirettamente divide le due comunità portandole anche inconsciamente a non relazionarsi e a sentirsi distanti. Uno degli esempi più validi a supporto di queste preoccupazioni è quello dell’insopportabile retorica sui cervelli in fuga. Io la considero falsa e profondamente pericolosa. E’ falsa perché, come spiegato prima, la migrazione è di per se un fenomeno complesso che investe vite e gruppi diversi. E’ falsa perché se c’è una cosa che ho avuto modo di verificare personalmente è che esistono grandi cervelli fuori e grandi cervelli dentro. Grandi anime dentro e grandi anime fuori. E ancora di più, grandi cervelli e grandi anime risultano molto spesso non da dati o fatti connaturati, ma questi si forgiano sulla base dell’ambiente in cui operano. Inoltre, la partenza e la non partenza, il successo o il non successo, dentro come fuori, è spesso legato a tutte quelle casualità, coincidenze, finestre di opportunità o mancate opportunità che fanno parte delle storie di ogni individuo. Ma, come dicevo, questa retorica comunicativa è anche particolarmente perniciosa e pericolosa perché crea una frattura tra le due comunità, quella dei partiti e quella dei rimasti. E’ infatti più arduo stabilire relazioni intimamente proficue e di scambio sulla base di un paradigma comunicativo di diseguaglianza, che disegna e autopromuove un gruppo abilitandolo a fare lezioni e morali e un altro gruppo a cui viene chiesto di prendere quelle lezioni e quelle morali. Ecco, se ci liberassimo della retorica dei cervelli in fuga avremmo senz’altro fatto un grande passo in avanti non solo nella lettura del fenomeno migratorio italiano, ma anche e soprattutto nella preparazione un nuovo paradigma narrativo che contribuisca ad indirizzare il fenomeno migratorio verso reali forme di collaborazione e di progresso.
Arrivederci alla settimana dell’8 luglio per la prossima puntata.
x
x