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«I Moti di Reggio? Un’operazione dei clan per non “perdere” la Regione»

L’ex pentito Serpa al processo ‘Ndrangheta stragista racconta gli anni dei contatti tra cosche ed eversione nera. Il gotha del fascismo al summit di Montalto e gli stretti contatti con i De Stefano

Pubblicato il: 27/06/2019 – 18:23
«I Moti di Reggio? Un’operazione dei clan per non “perdere” la Regione»

di Alessia Candito
REGGIO CALABRIA La pietra angolare della destra reggina, quei “Moti” che nostalgici vecchi e nuovi celebrano con parate e manifesti (abusivi) sono stati un’operazione di ‘ndrangheta. Un’operazione necessaria per la ‘ndrangheta e i De Stefano che la guidavano. Lo dice chiaro Stefano Serpa, ex pentito, con ancora tanti segreti da rivelare e che metterà a disposizione – promette in aula – «quando ci saranno le necessarie condizioni di sicurezza». Ascoltato al processo “’Ndrangheta stragista”, Serpa racconta quella pagina della storia di Reggio, oggi santificata nei troppi monumenti ai “Boia chi molla”, ma che probabilmente all’epoca ha segnato la definitiva sudditanza della città e della sua borghesia ai clan. E lui ne può parlare con precisa cognizione.
TESTIMONE DIRETTO «Ho partecipato ai Moti. Non avevo un ruolo specifico. Dove c’era necessità sono andato. Non mi sono mai tirato indietro. In particolare ho partecipato all’incendio degli uffici postali sul ponte Calopinace, in piazza Italia, ero presente quando è stato fatto brillare qualcosa in un palazzo vicino al ponte Calopinace, c’era un ufficio della Regione, poi ai disordini su Corso Garibaldi», racconta. Ma lui non era solo la carne da cannone mandata a portare scompiglio in piazza. Cresciuto all’ombra degli arcoti, conosce perfettamente il processo decisionale che ha portato i clan a scommettere su quella stagione di disordini.
QUESTIONE DI AFFARI E POTERE «Reggio – spiega Serpa – era la città di Paolo De Stefano e Giorgio De Stefano. Avere tutte le istituzioni qui è stato importantissimo per i De Stefano, i Tegano, i Libri. Con lo spostamento degli uffici, avrebbero perso il contatto diretto con gli uffici regionali e tutti i vantaggi connessi, perché avrebbero dovuto cederlo ai clan di Catanzaro. Per questo la partecipazione della ‘ndrangheta ai Moti non era stata per nulla estemporanea». Perdere Reggio avrebbe significato perdere affari e relazioni. E non solo per la ‘ndrangheta, ma anche per i tanti politici reggini che all’epoca aveva in tasca.
A DISPOSIZIONE «Reggio era un affare sia per la ‘ndrangheta, sia per i politici. Paolo Romeo, che univa entrambi i mondi  – dice a mo’ d’esempio il testimone –  era necessario, per questo è stato portato in Parlamento». Un metodo – ha dimostrato l’inchiesta Gotha – divenuto costante per i clan di Reggio. E che lo stesso Romeo per i magistrati ha replicato alla lettera.
«ALOI IL PIÙ INTERESSANTE PER I CLAN» Ma non era l’unico. «Lo stesso – racconta Serpa – è successo con Natino Aloi, che era il più interessante in quel periodo perché aveva contatti con Ciccio Franco, con Fefè Zerbi». Missino della prima ora, una carriera costruita sui Moti che lo ha portato fino in Parlamento, sottosegretario nel primo governo Berlusconi, Aloi per Serpa sapeva perfettamente con chi avesse a che fare. «Era molto amico di Paolo De Stefano e ne conosceva perfettamente l’estrazione criminale. È stato lui – afferma il testimone – a far partire la rivolta insieme al marchese Fefè Zerbi». E dietro la rivolta – fa capire Serpa – c’era la mano della ‘ndrangheta.
IL GOTHA DEL FASCISMO AL SUMMIT DI MONTALTO Ma il rapporto dei De Stefano con la politica – in quel periodo storico, soprattutto quella vicina all’orbita nera – era strutturato da tempo. Non a caso, afferma Serpa, proprio Paolo De Stefano ha permesso a diversi esponenti della destra eversiva di partecipare al summit di Montalto del ’69, la riunione – interrotta da un blitz delle forze dell’ordine – che ha sancito un prima e un dopo nella storia della ‘ndrangheta. Serpa lo sa perché c’era, ha visto tutto ed è testimone diretto di quegli eventi. «Io ero lì come picciotto di giornata, di guardiano. Mi portò lì Saraceno. Mi avvertirono pochi giorni prima. Sono arrivato la sera tardi, siamo stati alloggiati lì in un’abitazione e la mattina c’è stata la riunione».
LE DUE RIUNIONI DI MONTALTO O meglio, le due riunioni di quel settembre ‘69. Perché lui, pur non avendo diritto a partecipare ha visto tutto e ha sentito molto. Altro lo ha saputo negli anni a venire. In Aspromonte quel giorno c’era il gotha della ‘ndrangheta dell’epoca. «I fratelli Paolo e Giovanni De Stefano, Domenico e Pasquale Tegano, Vincenzo Saraceno, Stefano Caponera, mio cugino, Giuseppe Zappia da Taurianova,  Vincenzo Macrì da Locri, Paolo La Cava da Reggio Calabria, Saverio Mammoliti da Castellace, Antonio Molè da Gioia Tauro, Antonio Arena da Isola Capo Rizzuto, Domenico Martino da Gallico», elenca il testimone. «Poi c’erano altri di cui non so il nome». Nel corso della riunione però, spiega, «dal gruppo ad un certo punto si allontanarono 4 o 5 persone» per andare a prendere degli “ospiti”.
NUOVI ALLEATI «La riunione – ricorda Serpa – era in atto, stavano parlando Zappia e Paolo De Stefano, oltre che Molé pochissimo, ma soprattutto De Stefano». I due erano portatori di un’istanza comune a tanti altri, poi diventati lo schieramento della ‘ndrangheta nuova che ha seppellito in un mare di sangue vecchie gerarchie e vecchi capi. Don Paolino sosteneva che ci fosse «la necessità di avere dei nuovi alleati. Non altre cosche ma un comparto diverso, in particolare rivolto alla politica, che avrebbe potuto portare all’interno delle cosche perché “sta genti ‘ndi porta un saccu i sordi”. Avrebbero portato all’interno delle cosche possibilità diverse, ma anche contatti per poter disporre di armi». E un clan dalle ampie ambizioni come quello dei De Stefano – spiega il testimone –  «aveva bisogno di tante cose». Inclusi quei politici con cui da tempo era in contatto e aveva invitato al summit di Montalto.
IL GOTHA NERO Non erano tutti, ma solo «una rappresentanza». Ma i loro nomi sono quelli che hanno scritto, anche con il sangue, la storia dell’eversione e del terrorismo nero in Italia. «Quando ebbe l’ok da Zappia, De Stefano fece allontanare quattro-cinque persone che andarono a prendere i politici». Sarebbero stati Pierluigi Concutelli, terrorista nero e capo dell’organizzazione eversiva Ordine Nuovo, autore materiale dell’omicidio del giudice Occorsio e di altri fatti di sangue, latitante per anni in Spagna dove si è unito ai gruppi di repressione franchisti; Stefano Delle Chiaie, militante della prima ora del Msi e di Ordine nuovo, fondatore dei Gar (Gruppi di Azione Rivoluzionaria) e di Avanguardia Nazionale, latitante per diciassette anni in vari Paesi dell’America Latina, dove si è messo al servizio di dittatori di ogni risma, il cui nome è stato accostato più alle grandi stragi degli anni Settanta, senza però mai rimediare una condanna; Junio Valerio Borghese, fondatore dell’organizzazione di destra eversiva Fronte nazionale e comandante mai pentito della Rsi, ideatore, organizzatore e capo del fallito golpe dell’Immacolata; il marchese Fefè Zerbi, indicato come uno dei principali finanziatori del fallito colpo di Stato, quindi dei Moti di Reggio; Sandro Saccucci, ex paracadutista e membro dell’ufficio informazioni del corpo dei paracadutisti, luogotenente del Principe nero nel fallito golpe.
IL DONO DELL’UBIQUITÀ «Tutti questi politici – spiega Serpa – avevano rapporti tali da poter figurare di stare altrove. Concutelli è riuscito non so come a risultare in stato di fermo a Trapani. Io l’ho riconosciuto perché a Reggio c’era stato  forse qualche tempo prima perché era in via di ideazione il golpe Borghese». E tutti a Reggio erano di casa. «I De Stefano avevano rapporti strutturati con questi soggetti, è stato lui a portarli al summit di Montalto. I De Stefano avevano entrature dappertutto. Allora, ieri e ritengo anche adesso. Le ho vissute personalmente».
LE RIUNIONI CON FREDA Di certo, quei rapporti c’erano alla fine degli anni Settanta, quando a Reggio ha trascorso la prima parte della sua latitanza Franco Freda, in fuga dal processo per la strage di Piazza Fontana. «In quel periodo – racconta Serpa – è stato portato lì, a casa di Filippo Barreca. Lo avevano portato i De Stefano. Lui era in qualche paesino in provincia di Catanzaro e venne affidato ai De Stefano, che dovevano preoccuparsi di lui per tutto il periodo in cui sarebbe stato lì. Non potevano tenerlo ad Archi e lo hanno portato da Barreca». E all’epoca, Serpa da Barreca ci lavorava. Per questo ha visto e sa.
E QUELLE REGISTRAZIONI CHE LE PROVANO «Ho assistito a diverse riunioni fra Freda e persone che andavano a trovare specificamente lui. C’erano l’avvocato Giorgio De Stefano, il politico Paolo Romeo, Stefano Delle Chiaie e Luigi Concutelli. Non solo li ho visti, ma li ho accompagnati a casa di Barreca ed ero responsabile della loro sicurezza quando erano lì. Non ho mai assistito alle riunioni. Gli unici colloqui a cui ho assistito sono stati quelli fra Barreca e Freda». E Barreca, poi divenuto fra i primi pentiti della storia della ‘ndrangheta, era uomo assai diffidente. «Non capiva perché i De Stefano avessero affidato proprio a lui la gestione di un latitante così importante. Non si sentiva tranquillo per questo dopo circa una settimana ha iniziato a registrare le riunioni. Lo so perché sono stato io ad andare a comprare il registratore». Nastri che avrebbero tanto da raccontare. (a.candito@corrierecal.it)

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