È il più incasinato, Cicciu u tedescu. Parlava tre lingue, la madrecalabra, l’italiano e il tedesco acquisito. E quando in paese lo facevano incazzare gli sfuggiva il controllo “e allora birbiava pure, impuntandosi e imprecando con grande disappunto”. Ma tutti gli altri non sono puri di spirito. In questo spumeggiante “Catalogo della casa di Gianni” (Il Seme bianco editore/ pag 129 euro 13.90), rapporto sui generis a futura memoria dei vinti seppelliti nell’Aspromonte grecanico della Calabria ferox, la scrittura di Giuseppe Tripodi, tra il serioso e il gigioneggiante, sapida, colta, a tratti soverchio controllata, suadente nel rievocare i mitici effluvi del pane appena sfornato, gesta gloriose e prepotenze “onorate”, più che allusioni a pratiche di sesso incarognito, non di rado stravagante e irriducibile al politically correct, sfreccia all’impazzata traversando il Novecento da cima a fondo come un proiettile. E dà i brividi, specie quando schizza fra le aspre e perigliose selve calabre della civiltà del fiume Alece e all’intrasatta scava nell’animo dei personaggi senza pietas, veli di Maya, rimorsi, ipocrisie; mai l’ansia di dare dignità alla fabula, soprattutto se si attarda su quelli che si “incroscano tra loro”: cornuti, estorsori, omicidi. E poi si getta furiosamente in precipizi da lupi dove chissà quando (e chissà se vero) camparono antiche civiltà, riemergendo densa, sfacciata e rigogliosa, assieme ai suoi impermanenti visitatori stupefatti per la bellezza della frase (andando verso Precacore: «Parecchi chilometri assonnati e tortuosi mi insegnarono la differenza tra vicinanza apparente e distanza reale»), la ricchezza aneddotica e l’orgoglio immenso delle radici. Cicciu u tedescu, dunque, e tutti gli altri. Un nome una vita maschariata, il più delle volte, da privazioni e soperchierie, superstizioni ancestrali, coglionate, cacatine di musca, punti di gugghia, politici stromboneggianti e malandrini “che sapevano chiamarsi il posto (intendi: oltre l’area di competenza) cà fora di ccà e in qualsiasi località”.
In questa antologia (l’autore preoccupato che il suo possa scambiarsi per romanzo di formazione ci tiene a precisare che trattasi di “raffazzonati grumi narrativi sconnessi”) che, come capitò ad Edgar Lee Masters, ha anche l’intento di demistificare la realtà, i nomi dei morti che Tripodi ripesca dalla dimenticanza con elegante circospezione e senza nulla scansare o soffocare in artefatti moduli stilistici, già sono, se non si volesse altro apprendere per legittima indolenza o fastidio per i pruriti nostalgici traboccanti da ogni (spesso abusato) sentimentalismo ispirato dal com’eravamo, con il loro strascico fantasmagorico, selvatico, abbagliante, onomatopeico, la geografia rigidamente scolpita di una terra dolente, perduta, definitivamente sconfitta dalla storia e dal fato ma anche per la complicità della sua gente, più che sufficienti per comprendere cosa accadde in quel buco del culo del mondo e, al contempo, per riabilitare la goduria strapaesana (afferrabile solo da chi in un paese ci vive o c’è nato) di una stoppa fra quattro amici e il comunismo fantasticato nel chiasso di una casa mentre qualcuno urla “u mangiara è fattu” e un altro stolto traccia connessioni ardite fra Marx e l’apostolo di Patmos. Più che leggere le storie del “Catalogo della casa di Gianni”, quasi tutte segnate da un’irreversibile entropia (votate “a confondersi e a scomparire dentro il caos”) sono i suoni dei nomi, la cui radice trattiene sul groppone i vagiti di ogni sorta di dominazione in saecula saecolurum, che acchiappano il lettore e in un fiat lo trascinano all’epilogo (posto che epilogo ci sia). E sono i nomi stessi a trascinarsi appresso i vissuti e ad esporli coram populo senza interposizioni di sorta.
Cola Ieropoli, per esempio, “ossessionato dai traditori” è il cugino dell’autore; entrambi prole irrequieta di un misterioso villaggio aspromontano ficcato tra la vallata di Amigdalèa e del Tukkion nomato Precacore che (ammesso sia esistito) oggi non si chiama più così e dove si farneticava che gli abitanti avessero i cromosomi di forma sferica e non lineare. Da solo Cola (o Colino) si prende l’intero “Proemium Jocosum” che a me pare essere l’enigma da decifrare per accedere alla quintessenza struggente di tutto il libro. E poi: Nina Milìssina, Ziu Capintuni: prim’attore nella rivalità fra Peripolitani e Condofuriòti; Zi’ Rocco u Vutracùni : “la pipa intartarata e la gualleria che aveva grande quanto una còfana del pane”; il tabbacchino della Murca, Zi’ Leu u Zofratùni. E poi: Gianni Crocè e la sua casa: quasi una piazza allergica a ogni confort per comunisti focosi che però non disdegna i socialisti né i mafiosi (la frequentava il deputato comunista Eugenio Musolino, che sollecitò la grazia a Togliatti per il brigante Musolino, per incontrare il malacarne Cecio Sibilla, lesto a sbrogliare situazioni difficili e maestro di rota). Gianni è l’orologiaio che lo sbattimento della piena irruenta della vita ha costretto su una sedia a rotelle e reso saggio fino a mostrare il ghigno se s’offendono santi madonne e patedeterno e, in qualche modo, è colui che osserva, senza pretese di orientarlo, l’intrico e la complessità del sommovimento delle singole vite di cui dà conto questo speciale Spoon River grecanico. E poi : Ntoni u Murcu, Mbertu Malaspina, maru Don Filippu e i fratelli Creuzzi che l’hanno ammutato; Candiloro Toscano, il povero Ciccantoni: il tedesco dalla parlata incasinata; Micu Pagghiazzu, Andrea, figlio degenere di Rosario Marrapodi, Tanu u mpurrutu, Mbertu Rosaspina, Ntoni u murci: “fagliante del braccio destro”; Carmelo Truscia: commerciante di olio, accanito fumatore, espertissimo nel poker dei poveri, di scopa e calabresella; Cecio Sibilla, l’intrepida Ndrìola e donna Brizzìta che, per non farsi mettere incinta, imponeva il more ferarum. E poi: “E poi? E poi? E poi? Fighia la vacca e faci lu boi”, irrideva Rocco Siviglia, “fumando col fuoco in bocca”, l’autore ragazzino quando, affamato di storie, protestava per la loro brevità e allora, “quel campione delle short-storie in rima”, lo spediva a casa con un “Ninu Nnappa mungi la vacca/ mbivi lu vini e dici ch’è acqua”. Sono l’ironia, malinconica a volte tagliente, e la sopportazione del malvivere di un popolo a cui non è stata fatta grazia alcuna né risparmiate fatica e ingiustizia che tiene insieme il mucchio di storie sparse nel libro. E lo rendono prezioso, acuto ed originale. Se a Umberto Zanotti Bianco (“u signurinu” salì ad Africo la prima volta nel 1928) quella “perduta gente”, di cui avvertiva il dolore e anche il senso dell’irrimediabile e che viveva “un tempo che qui è fuori dai suoi cardini”, si rivolgeva con un affranto “ch’avimu a fari?” che evocava il fatalismo di chi non si fida dello Stato perché lo Stato gli ha dato sempre torto, con Giuseppe Tripodi è diverso. A lui, che ha respirato a fondo l’aria di quelle contrade del Mezzogiorno italiano accanto alle vite infilate nel libro che sono parte della sua autobiografia, la “perduta gente” non chiede che fare, perché quello che c’era da fare non è stato fatto. E non c’è più spazio per rimediare. Gli chiedono soltanto, dagli abissi fumanti in cui resistono, di non dimenticarli. Di scongiurare il rischio che nel giro di una o due generazioni l’oblio annebbi la loro vicenda umana, sicché nessuno più sappia chi erano, da dove sono venuti e come hanno vissuto. Tripodi questo impegno se l’è preso tutto. E il “Catalogo della casa di Gianni” dimostra che è uomo di parola (e di scrittura che vale la pena frequentare): «La mia speranza è che tra qualche tempo non si parli solo dei politici di rilevanza nazionale, dell’emigrazione, della Cassa per il Mezzogiorno, della ‘ndrangheta, senza più ricordare Cola Ieropoli, Gianni Crocè e persino il vostro contafiabe». Di quel ragazzino a cui, ogni volta che rientrava in casa col volto cereo per i raggiri di quella “cariatide dispettosa e deforme” di Zi’Roccu, la madre diceva: “Cussì ti ‘mpari a jocari sempri ch’i vecchi guaddharùsi e farci u servu avanzi e arretu d’u tabbacchinu!”.
*giornalista
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