ROMA Rimane in carcere Michele Surace, uno degli imprenditori di Reggio Calabria ritenuti affiliati al clan Tegano, fermato in un’operazione del Nucleo investigativo dei carabinieri ad aprile 2018. È quanto ha stabilito la Prima sezione penale della Corte di Cassazione con il provvedimento pubblicato martedì, riferisce Agipronews. Secondo quanto emerso dall’operazione “Monopoli”, il gruppo di imprenditori, tra cui Michele Surace, aveva lavorato fin dagli anni Ottanta come braccio imprenditoriale del clan, accumulando in modo illecito enormi profitti poi riciclati attività commerciali, tra cui la sala bingo nel quartiere Archi di Reggio Calabria, la cui proprietà è da ricondurre a Giovanni Tegano e a Surace, e che da anni farebbe da “lavatrice” dei soldi dei clan. La gravità degli indizi nei confronti di Surace – accusato di associazione mafiosa, riciclaggio, intestazione fittizia – è stata confermata dalla Cassazione, secondo cui la custodia cautelare in carcere disposta dal Tribunale di Reggio Calabria «non è affetta da errori di diritto né da vizi di motivazione». Le rivelazioni dei collaboratori di giustizia «inquadrano l’indagato all’interno della cosca, che gli aveva permesso l’apertura della sala bingo, la cui attività era però rimasta sotto il controllo della consorteria, che ne percepiva i profitti». Surace era inoltre un «frequentatore abituale della casa di Pasquale Tegano». Per quanto riguarda la sala bingo, il Tribunale ha ricordato che l’indagato nel 2005 «aveva costituito, con il cognato Bruno Mandica, la società Michele Surace e Bingo s.r.l.». Mandica era poi diventato titolare dell’intero capitale sociale nel 2008, ma «le videoriprese e le intercettazioni dimostrano chiaramente che si tratta di interposizione fittizia. Dagli elementi indiziari – scrive la Cassazione – emerge che l’indagato non solo era solito prelevare denaro dalle casse della sala bingo, ma permetteva anche a terzi di fare lo stesso, senza che Mandica potesse opporsi». La sala era in realtà «per metà di Michele Surace e per metà del socio occulto Giovanni Tegano». Una proprietà che spiega anche le vicende di altri imprenditori che avevano avuto difficoltà ad aprire nuove sale bingo, «perché nella zona doveva garantirsi il monopolio di quella appartenente ai Tegano». Il pericolo di reiterazione del reato e il rischio di «inquinamento del materiale probatorio», giustificano secondo la Cassazione la custodia cautelare in carcere.
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