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Omicidio Chindamo, l'ossessione di Ascone e la vita di Maria «in una terra difficile»

Il destino dell’imprenditrice si incrocia con quello dell’agricoltore maniaco della videosorveglianza. Che diventa paranoico dopo la morte della donna. Mancuso: «Vantava soffiate da due carabinieri…

Pubblicato il: 11/07/2019 – 21:36
Omicidio Chindamo, l'ossessione di Ascone e la vita di Maria «in una terra difficile»

di Alessia Truzzolillo
VIBO VALENTIA Emanuele Mancuso, collaboratore di giustizia, figlio di Pantaleone Mancuso detto “l’ingegnere”, conosceva e frequentava Salvatore Ascone quasi tutti i giorni. Mancuso è un elettrotecnico mentre Ascone è un uomo letteralmente fissato con i sistemi di videosorveglianza. La casa di campagna, i capannoni, i terreni, l’abitazione, i ricoveri degli animali, tutto era monitorato con sistemi video.
«Una vera e propria mania», scrive il gip di Vibo nell’ordinanza di custodia cautelare che consegna Ascone alle patrie galere con l’accusa di concorso in omicidio. «Quando si entra nell’abitazione di Ascone – racconta Mancuso – colpisce il fatto che al piano di sotto, nella zona della cucina c’è un monitor di grandi dimensioni che riproduce le immagini che vengono captate da 10/12 telecamere, funzionanti sempre, 24 ore su 24».
Eppure proprio l’improvviso e repentino malfunzionamento delle telecamere di una proprietà agricola di Ascone non ha permesso di individuare gli autori dell’agguato mortale a Maria Chindamo, imprenditrice agricola di Laureana di Borrello aggredita davanti a una sua proprietà a Limbadi.
Il 6 maggio del 2016 Maria (qui l’appello del fratello per sapere la verità) doveva incontrare nell’azienda agricola una persona per effettuare dei trattamenti ad alcune piante di kiwi.
IL PADRE-PADRONE Secondo la ricostruzione degli inquirenti sarebbe stato proprio il figlio di Ascone (indagato dalla Procura dei minori perché all’epoca dei fatti aveva meno di 18 anni) a manomettere materialmente le telecamere che, solitamente, erano programmate per funzionare dalle 20 alle 8 del mattino. Ma il 5 maggio la registrazione si interrompe alle 22:37 e non riprende l’agguato che, guardacaso, avviene tra le 7.10 e le 7.15 del mattino. Erano telecamere che avrebbero funzionato anche se si fosse interrotta la corrente perché dotate di batterie. Secondo il gip – che ha analizzato il materiale investigativo raccolto dai carabinieri di Vibo – «le uniche persone che il 5 maggio sono state viste andare verso la proprietà rurale (dove erano le telecamere, ndr) e che avevano la possibilità di intervenire sull’hard disk» erano il figlio e la moglie di Ascone. Al ragazzo – con la «consapevole complicità della madre (allo stato non indagata in questo procedimento, ndr)», scrive il gip, – viene ascritta la responsabilità di avere manomesso l’hard disk, ma il «regista della manomissione», secondo l’accusa, è il padre con la complicità dell’operaio.
Dai racconti di Emanuele Mancuso emerge come Salvatore Ascone fosse una sorta di padre-padrone: «So che Ascone tratta molto male i suoi figli e li fa spesso lavorare in campagna. Ad esempio il figlio… non lo fa studiare e lo fa lavorare nei campi: questa cosa è stata anche oggetto di discussione tra Ascone e la moglie».
PARANOIE Le dichiarazioni di Mancuso si associano all’attività tecnica dei carabinieri portando elementi probatori alle indagini. Il collaboratore racconta che nei giorni della scomparsa della Chindamo si era recato da Ascone il quale gli raccontò che proprio il giorno dell’agguato le sue telecamere erano spente. Ma la moglie si precipitò a correggerlo: non era vero che erano spente, in realtà non avevano funzionato. Una cosa che sembrò strana a Mancuso che nel corso dell’interrogatorio aggiunge: «Per quanto a mia conoscenza, Ascone prestava grande attenzione al funzionamento delle telecamere, per cui se non avessero funzionato, lui le avrebbe immediatamente fatte riparare perché su questo aspetto era quasi paranoico».
Dopo la scomparsa di Maria Chindamo, ad Ascone vennero sequestrate le autovetture. L’agricoltore si affrettò in quei giorni a chiamare l’amico elettrotecnico per effettuare delle bonifiche da eventuali microspie, sia nella casa di campagna che nelle auto dopo che gli vennero restituite.
«INFORMAZIONI DAI CARABINIERI» Ma non solo. Salvatore Ascone chiese anche a Mancuso di rimuovere una telecamera piazzata dalla polizia giudiziaria nel bivio Vibo Mileto / Rosarno. «La videocamera era posta su un albero di quercia. Non ricordo se ho staccato la telecamera prima o dopo la scomparsa della donna», dice Mancuso. Quello che il collaboratore ricorda è che la telecamera era occultata così bene che impiegò un’ora a trovarla dopo che gli era stato indicato il luogo. Come facesse Ascone a sapere di quel punto di monitoraggio piazzato dalla polizia giudiziaria, Mancuso non lo sa. Però ricorda che spesso l’agricoltore si vantava di avere «contatti importanti con due persone di spessore che gli fornivano informazioni. Mi disse – dichiara Mancuso – che queste due persone erano solite dargli informazioni e che erano carabinieri, ma non mi disse mai il loro nome, anche  perché era attento a conservare per sé i canali informativi… omissis… ».
COSA RACCONTA IL SANGUE Appena scesa dalla sua Dacia per andare ad aprire il cancello, Maria Chindamo è stata aggredita. Si trovava proprio davanti alla sua proprietà di campagna. Un operaio, Dimitrov, che lavorava nei campi non ha sentito le sue grida perché, ha dichiarato ai carabinieri, in quel momento aveva messo in funzione i mezzi agricoli e le macchine in moto avevano coperto ogni rumore sospetto. I Ris di Messina hanno suddiviso l’agguato in cinque momenti, in tutto durati circa cinque minuti. In questo caso è il sangue che parla.
La donna è stata colpita, si tocca la ferita e si poggia sul cofano della macchina lasciando un’impronta palmare. Chindamo cerca di rientrare in macchina, si appoggia sul paraurti lato guida e qui lascia alcuni capelli e un’impronta della mano. Prova a entrare in macchina afferrando la maniglia della portiera. Viene afferrata scagliata a terra e colpita di nuovo come provano tracce di sangue a schizzo su un muretto a secco. Tracce di sangue sono state trovate anche a terra, segno di un trascinamento della vittima mentre altre tracce sul parafanghi posteriore, lato guida, fanno pensare che al momento del trascinamento la donna era ancora viva e avrà provato ad aggrapparsi a qualcosa.
MARIA «IN UNA TERRA DIFFICILE» «Maria Chindamo era (l’uso del verbo “essere” al passato è, a questo punto, inevitabile) una madre di tre figli, che non aveva mai manifestato alcun turbamento o insofferenza – scrive il gip –; era un’imprenditrice che si occupava del suo lavoro con grande impegno, portando avanti con ottimi risultati un’attività imprenditoriale che aveva dovuto imparare a gestire; e viveva una nuova relazione sentimentale con grande coinvolgimento».
Nessun motivo, secondo gli inquirenti, per un allontanamento volontario. «Ma Maria Chinadamo si era fatta certamente dei nemici», scrive il gip.
Il marito si era suicidato l’8 maggio 2016, quasi un anno prima dell’agguato. «Dalle sommarie informazioni raccolte e dalle conversazioni intercettate è emerso che i familiari del Puntoriero ritenevano Maria Chindamo moralmente responsabile del suicidio del loro congiunto e non vedevano certamente di buon occhio la relazione sentimentale che aveva intrapreso con un altro uomo, Giovanni Tagliaferro, appartenente alla polizia di Stato». Era nata acredine tra la Chindamo e la famiglia dell’ex marito anche per questioni economiche. Ma questo non è l’unico elemento della vita personale di Maria Chindamo che gli inquirenti tengono in considerazione. La donna, infatti, gestiva da sola, da quando il marito si era tolto la vita, l’azienda agricola e il patrimonio immobiliare, «in una terra difficile dove anche la contesa su un confine può costare cara». Una terra difficile perché ad alta densità criminale, «nella quale la richiesta del pagamento di un “pizzo” è purtroppo – annota il giudice per le indagini preliminari – considerata da molti una consuetudine inevitabile, con le note conseguenze di rappresaglia su chi non intende pagare».
«Abbiamo un’idea del movente riconducibile alla sfera personale della vittima», hanno detto gli inquirenti in conferenza stampa. Ora c’è da dipanare i fili della vita di Maria. (a.truzzolillo@corrierecal.it)

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