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«Emilia sotto assedio, 'ndrangheta peggio dei terroristi»

Le parole del pentito Valerio aprono le 3.200 pagine della sentenza contro le cosche al Nord. I clan hanno vestito «un abito nuovo» per rendersi presentabili. L’ex calciatore Iaquinta ritenuto est…

Pubblicato il: 18/07/2019 – 14:44
«Emilia sotto assedio, 'ndrangheta peggio dei terroristi»

BOLOGNA Una ‘ndrangheta che per fare sempre più affari al nord e conquistare nuovi spazi nell’economia ha cambiato veste, «ha vestito un abito nuovo», «presentabile», di fatto imprenditoriale, pur rimanendo fedele alla sua «consolidata fama criminale». È questa la descrizione della cosca emiliana che emerge con maggior forza dalle 3.200 pagine della sentenza del processo Aemilia, che si è concluso a Reggio Emilia a ottobre con 118 condanne per 1.200 anni di carcere.
Dalle 195 udienze del dibattimento, scrive il collegio formato dai giudici Francesco Caruso, Cristina Beretti, Andrea Rat, è stata restituita un’immagine di un’associazione ‘ndranghetista «radicata solidamente, da decenni, sul territorio reggiano ed emiliano, sfruttando le caratteristiche e le potenzialità proprie del tessuto socio-economico di cui si è alimentata». Questa ora «ha indossato una veste prettamente imprenditoriale, grazie alla quale ha celato il suo tradizionale e rude volto, insinuandosi e mimetizzandosi subdolamente in settori criminali lontani da quelli tradizionali, ma non certo meno proficui di quelli, anzi, fortemente appetibili anche dalla cosca madre calabrese, sempre in cerca di nuove occasioni di arricchimento».
Ma al di sotto e a fianco di quella veste, «essa ha tuttavia continuato a perpetrare la sua fama criminale secondo modalità tanto più temibili quanto meramente evocative, seppur costantemente pronta a fare concreta mostra della sua potenza criminale, grazie alla sua “ala militare”, per imporre con la forza della prevaricazione le sue regole, i suoi obiettivi, la sua volontà».
In ogni caso la capacità del sodalizio di infiltrarsi nel tessuto economico reggiano e emiliano «anche grazie alla ben più presentabile veste imprenditoriale e alla rassicurante opera di esponenti apparentemente “puliti”, insospettabili ed affidabili, ha rappresentato uno strumento fondamentale» non solo per generare e moltiplicare ricchezza, «ma anche per la cura e lo sviluppo degli interessi economici della cosca calabrese e del suo capo», cioé Nicolino Grande Aracri.
SOTTO ASSEDIO «Signor presidente, a Reggio Emilia siete tutti, nessuno escluso, sotto uno stadio di assedio e assoggettamento ‘ndranghetistico che non ha eguali nella storia reggiana, nemmeno i terroristi erano arrivati a tanto». Sono le parole del pentito Antonio Valerio, pronunciate in udienza l’11 ottobre 2018 davanti ai giudici del processo.
«La ‘ndrangheta qui a Reggio Emilia – diceva ancora Valerio, secondo i giudici con una sintesi «efficace e drammatica» – è autonoma, evoluta e tecnologica. Asserisco e ribadisco che la ‘ndrangheta è il fenomeno che oggi vi fa meravigliare a Reggio Emilia, i vari Dragone, Sarcone, Diletto, Lamanna, Grande Aracri, Vertinelli, Blasco, Valerio, Bolognino, eccetera, eccetera. Tutti, nessuno escluso. Anzi, come ho sempre detto, ne mancano, e anche tanti. Comunque nomi e cognomi, che spuntano nelle ultime operazioni di polizia, carabinieri, gdf a Reggio Emilia e dintorni, ora li state scoprendo come agivano e tessevano le fila, e tessevamo le fila, sotto il profilo criminale organizzato». E ancora: «Non sono le nostre origini la discriminante, ma ciò che siamo:
mafiosi e ‘ndranghetisti, maledettamente organizzata».
Ciò che fa specie, proseguiva parlando dell’assoggettamento, «è che la ‘ndrangheta lo fa silentemente, prima di arrivare a fatti eclatanti come il ’92. Ha impresso, marchiato a fuoco con
il sangue chi doveva comandare a Reggio Emilia, e poi è sceso il silenzio tombale, ciò che sa fare bene la ‘ndrangheta».
IAQUINTA ESTRANEO ALLA ‘NDRANGHETA Vincenzo Iaquinta, ex bomber della nazionale e della Juventus, campione del mondo del 2006, è ritenuto dai giudici del processo “Aemilia” estraneo all’associazione mafiosa. È quanto rilevano i giudici del processo contro la ‘ndrangheta nelle motivazioni della sentenza che, nell’ottobre scorso, ha portato a 118 condanne per oltre 1200 anni di carcere.
«L’estraneità di Vincenzo Iaquinta all’associazione mafiosa – scrivono i giudici – e lo strettissimo rapporto personale con il padre al quale si è sempre, acriticamente, affidato nella gestione delle armi lasciano persistere il ragionevole dubbio che egli non abbia agito nel perseguimento della finalità tipica contestata, bensì al solo scopo di aiutare il padre». Vincenzo Iaquinta è stato condannato a due anni per una custodia irregolare di armi. Il padre dell’ex calciatore, Giuseppe Iaquinta, è stato condannato a 19 anni in quanto ritenuto parte dell’associazione.
ORGANIZZAZIONE AUTONOMA La cosca di ‘ndrangheta emiliana al centro del processo Aemilia è un’organizzazione autonoma, seppur fortemente legata alla casa madre calabrese. Su questo concetto si sofferma la motivazione della sentenza: «L’imponente mole di prove raccolte nel corso del dibattimento – si legge – ha confermato l’insediamento sul territorio di Reggio Emilia e della sua provincia di una cosca di ‘ndrangheta di derivazione cutrese, sviluppatasi e diffusasi anche sul territorio delle province emiliane limitrofe e di quelle della bassa Lombardia, dotata di autonomia sul piano decisionale, organizzativo, economico nonché su quello operativo della esteriorizzazione del metodo mafioso, manifestatosi su questi territori ove si sono consumati la totalità dei reati fine».
Lo conferma anche «l’autonoma determinazione di strategie pubbliche e politiche da adottare a tutela del gruppo anche nei momenti di fibrillazione» e la ricerca «di contatti con esponenti della politica, della pubblica amministrazione nonché della informazione locale, nel tentativo di influenzarla e di colpirla». Ma autonomia non significa «recisione di qualsiasi rapporto con la casa madre e con il suo capo», cioé Nicolino Grande Aracri. Ma implica, «innanzitutto, collaborazione in vista della massimizzazione del reciproco profitto». Né esclude «fedeltà e il rispetto che la cosca emiliana deve portare alla casa madre e al suo capo», che si traduce in un dovere di informazione, in un ritorno economico (il cosiddetto “fiore”).
STAMPA DA IMBAVAGLIARE Da un lato «una campagna politico-mediatica» a sostegno della tesi «della discriminazione e dell’isolamento dei cutresi emigrati nella Provincia reggiana diversi anni prima». Dall’altro azioni per «condizionare, addirittura imbavagliare, gli organi di informazione» ritenuti ostili. È questa, secondo i giudici del tribunale di Reggio Emilia, una delle grandi strategie attuate dalla cosca emiliana per affermarsi nel territorio. Lo evidenziano gli episodi di minacce a giornalisti al centro del processo, come quella di Gianluigi Sarcone ai danni del direttore di Telereggio Gabriele Franzini. La vicenda «si inserisce pienamente in una strategia del gruppo che mirava a controllare, condizionare, financo imbavagliare, la stampa e l’informazione in generale, per valorizzare la comunità calabrese come risorsa per la collettività reggiana e per nascondere dietro questa immagine “pulita”, il radicamento della criminalità organizzata di origine calabrese. Per fare ciò occorreva – spiegano i giudici – impedire che venissero divulgate notizie di senso contrario e gravemente nocive per il sodalizio. Ciò anche a costo di andare a colpire i singoli giornalisti con azioni intimidatorie».

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