«La lotta alla mafia non è una priorità dello Stato italiano». Lo scrive il procuratore aggiunto della Dda di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo, in una riflessione pubblicata su Repubblica in occasione della ricorrenza dell’attentato nel quale 19 luglio 1992, in via D’Amelio a Palermo, vennero uccisi il giudice Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta. «Non è una morte come le altre quella di Paolo Borsellino, per le riflessioni che impone e che vanno ben oltre quello che accadde quel terribile 19 luglio di tanti anni fa. Aveva capito – sostiene Lombardo – Paolo che il calo di tensione nella lotta alla mafia da lui denunciato non era fisiologico. Non era una bonaria sottovalutazione del fenomeno criminale. Era ben altro, come molti anni dopo si è riusciti a comprendere e dimostrare. Certamente oggi ci vorrebbe uno sforzo collettivo per spiegare a Paolo le ragioni per le quali non siamo riusciti ancora, nonostante l’impegno della magistratura, a convincere gli organi centrali dello Stato che bisogna fare scelte politiche nette, destinate ad avviare una seria e duratura azione di contrasto al crimine organizzato, che parta dalla modernizzazione di procedure giudiziarie antiquate». Secondo il magistrato della Dda di Reggio Calabria «intanto, bisognerebbe chiedere scusa a Paolo per le troppe volte in cui sono stati distorti i suoi insegnamenti e per la profonda ipocrisia di chi, nel 2019, sostiene che il suo metodo di lavoro sarebbe rimasto immutato rispetto a quello del 1992. Paolo oggi avrebbe dato lezioni di modernità, consapevole che la mafia, vero nemico del nostro Paese, non va mai banalizzata. Non avrebbe mai sminuito la reale forza di una organizzazione viva e vitale, consapevole che la sottovalutazione del fenomeno è il modo peggiore di avviare una seria strategia di contrasto. A chi mi chiede come è giusto ricordare il sacrificio di Paolo Borsellino, che per servire lo Stato è morto come Giovanni Falcone, tanti altri magistrati e appartenenti alle forze dell’ordine, rispondo – prosegue Lombardo su “Repubblica” – che la strada da seguire parte dal coraggio di affermare che la lotta alla mafia non è una priorità dello Stato italiano. Non lo è più, nonostante la consapevolezza che la criminalità organizzata metta a rischio la stessa tenuta democratica della nostra nazione. La lotta alla mafia non è una priorità semplicemente perché richiede una volontà politica che superi gli sbarramenti generati dalla mancanza di adeguate coperture finanziarie, argomento strumentalmente utilizzato per giustificare le drammatiche vacanze di organico della magistratura, del personale amministrativo e delle forze di polizia». Lombardo così conclude la sua riflessione su “Repubblica”: «Che senso ha sbandierare arresti e condanne come fossero vittorie. Sono risultati importanti generati dal lavoro quotidiano, per i quali non vogliamo applausi. È il nostro lavoro e il nostro lavoro, tra mille difficoltà, lo sappiamo fare. Punto e basta. Sia chiaro che vincere la guerra contro la mafia è ben altra cosa, provoca ben altri effetti sul benessere collettivo ed è l’unico risultato in grado di onorare fino in fondo la memoria di Paolo, di Giovanni e di tutti coloro i quali hanno vissuto da uomini dello Stato. Non si creino i presupposti per generare altre solitudini, perché quando si è soli si muore. Nessuno ha bisogno di cercare conferme ulteriori. È importate ricordare che Paolo non è morto invano: il 19 luglio 1992 è il giorno in cui tutto ha avuto inizio, non quello in cui tutto è finito».
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