di Sergio Pelaia
REGGIO CALABRIA Tutto nasce da una rimpatriata. I vecchi compagni di scuola che si erano diplomati in un istituto tecnico reggino nel 1985 si ritrovano, trent’anni dopo, nello stesso ristorante in cui avevano festeggiato la maturità. Durante quella cena si incontrano un maresciallo della Guardia di finanza in servizio alla Procura di Reggio, Franco Romeo, e il segretario del Pd di Melito Porto Salvo, Tino Laganà. Un faccia a faccia da cui, secondo il Gip che ha vagliato l’inchiesta “Libro nero” (qui i dettagli e qui i nomi), sarebbe nato l’accordo corruttivo che ha portato i due agli arresti domiciliari assieme al presunto protagonista della vicenda, il capogruppo del Pd in consiglio regionale Sebi Romeo. In loro tre la Dda si è imbattuta indagando sul clan Libri, ma nessuno dei tre è accusato di reati di mafia. L’ipotesi non è comunque leggera: il reato contestato dalla Procura, in concorso, è corruzione (poi riqualificato dal gip in tentata corruzione) per un atto contrario ai doveri di ufficio. I due Romeo, Sebi (il politico) e Franco (il finanziere «infedele»), avrebbero stretto un accordo corruttivo tramite Laganà: il primo, secondo gli inquirenti, avrebbe dovuto fornire «utilità non dovute» (un posto di lavoro per una terza persona) al maresciallo che, in cambio, gli avrebbe fatto avere notizie coperte da segreto su eventuali indagini che riguardavano lui o persone a lui vicine.
IL CELLULARE DI SEBI E IL «DIFETTO DEL MARESCIALLO» Gli inquirenti tengono sotto controllo il cellulare di Sebi Romeo. Il politico è un pezzo grosso del Pd (ora sospeso dal segretario Zingaretti, ma sostanzialmente difeso dal governatore Oliverio a cui è sempre stato vicino) e nella sua segreteria a Palazzo Campanella c’è un viavai di persone che vogliono parlare con lui. Tra queste anche uno dei suoi uomini sul territorio, Laganà, che una mattina di giugno del 2015 lo va a trovare per raccontargli di quell’incontro avvenuto alla rimpatriata con i compagni delle superiori. Gli riferisce, in sostanza, la proposta arrivata da quel maresciallo della Finanza «che lavora in Procura, al Cedir». Il finanziere, per Laganà, è «come un fratello», ma ha «un difetto», «non risponde al telefono manco se lo ammazzi», perché dice «che i telefoni sono controllati». «Io – spiega il segretario del Pd di Melito – se lo voglio devo andare a trovarlo a casa, però a lui se io gli telefono, se gli chiama mio figlio per dirgli di passare è capace che passa».
«SE LORO HANNO BISOGNO IN PROCURA…» Laganà spiega che inizialmente il maresciallo aveva manifestato la volontà di rivolgersi a Nino De Gaetano (all’epoca assessore regionale), ma lui gliel’aveva «girata» in un altro modo: «Ora questo qua ti vuole incontrare – spiega a Romeo – perché è venuto da me e mi ha detto che voleva parlare con Nino De Gaetano, dice io gli devo chiedere un favore se loro hanno bisogno alla Procura, io ho aiutato a tanti senza che mi fanno favori, una cosa ed un’altra dice sai, tu sai che io sono serio, se prendo un impegno lo mantengo eccetera eccetera. Gli ho detto io secondo me è meglio che parliamo con Sebi perché Nino oggi è Assessore, gliel’ho girata così, ma domani non sappiamo gli ho detto io che fanno, mentre Sebi è consigliere e resta così». La locuzione «se loro hanno bisogno alla Procura» per gli inquirenti è chiara, come chiaro appare l’interesse immediato di Sebi Romeo per la proposta.
«TI APRE GLI OCCHI» IN CAMBIO DI UN’ASSUNZIONE L’ormai ex capogruppo del Pd propone subito a Laganà di fissare un appuntamento ma il segretario dem di Melito spiega che «lui (il maresciallo, ndr) qua non viene». Romeo quindi chiede: «E, ma lui dove vuole che ci vediamo?». Laganà risponde: «Dove vuoi tu, basta che non è ha detto, che non è al Consiglio e che non è vicino alle macchine». L’oggetto della richiesta, si evince dal seguito della conversazione, è l’assunzione di una persona in un’azienda di trasporti.
L’accordo di cui Laganà si sarebbe fatto mediatore appariva allo stesso segretario del Pd di Melito come «una cosa positiva» per Sebi Romeo – «quello viene e mi trova ed io vengo e ti apro gli occhi…» – e secondo i magistrati «lo sa bene il consigliere Romeo che con entusiasmo risponde “assolutamente”, addirittura il politico propone un incontro presso la sede istituzionale del Consiglio Regionale, ma il Laganà rammenta che il finanziere preferiva incontrarsi riservatamente in un sito sicuro (lontano da autovetture, da occhi ed orecchie indiscrete)». Il maresciallo insomma viene subito individuato come «soggetto nelle condizioni di acquisire informazioni riservate da girare, per il tramite del Laganà, al politico regionale per “aprirgli gli occhi”».
LA CENA A MELITO PORTO SALVO Meno di un mese dopo gli inquirenti monitorano i preparativi per una cena che si sarebbe tenuta a Melito Porto Salvo, paese di Laganà, il quale nei preparativi specifica più volte come sia prevista la presenza del capogruppo del Pd a Palazzo Campanella. Le telefonate per organizzare la cena si susseguono inequivocabili e lo stesso giorno Laganà manda un sms al figlio. Un sms che non contiene nessuna parola, ma solo un numero di telefono, quello del maresciallo della Guardia di finanza. Dopodiché chiama il figlio e gli dà alcune istruzioni: «Fai quel numero di telefono che ti risponde Franco e gli devi dire stasera alle otto e dieci di venire qua che ci prendiamo il caffè, senza che gli dici mio padre e mia mamma, lui lo sa che sei tu». Il figlio mostra qualche tentennamento ma il padre ribadisce di dire in quel modo «che lui capisce». Gli inquirenti documentano come subito dopo il figlio di Laganà contatti effettivamente il maresciallo. E documentano pure le successive telefonate tra Laganà e Sebi Romeo, il quale spiega di essere appena partito da Reggio, di aver preso dei dolci e aggiunge: «Poi ci vediamo a casa tua e poi ci dobbiamo spostare giusto?». Secondo la Dda l’incontro tra i tre è dunque avvenuto.
L’ESITO (IGNOTO) DELLA TRATTATIVA Il gip rileva che «l’aver utilizzato gli accorgimenti di cui si è detto – nessun contatto telefonico diretto, nessun incontro presso la sede regionale, l’essersi avvalso dell’utenza telefonica del figlio di Laganà ed il criptico messaggio inviato – la dicono lunga circa la natura e le finalità illecite dell’incontro». Tuttavia, prosegue il giudice, «non vi è prova che l’abboccamento si sia tradotto in un accordo, espressione della sintesi delle volontà dei protagonisti». A seguito della “proposta” del maresciallo, infatti, «entrambi i protagonisti del rapporto danno vita ad una trattativa, svolgendo un ruolo attivo, ma non è dato sapere con quale esito». Però effettivamente ci sono, conclude il gip, «gravi indizi di colpevolezza» nei confronti dei tre, che avrebbero «compiuto atti idonei e diretti in modo non equivoco a raggiungere un accordo corruttivo, sulla cui avvenuta conclusione non vi sono indizi». E il procuratore di Reggio Giovanni Bombardieri ha spiegato, commentando l’operazione, che si sta verificando se effettivamente abbiano avuto o meno accesso a informazioni riservate. (s.pelaia@corrierecal.it)
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