di Alessia Candito
REGGIO CALABRIA «Non so, non ricordo, ero stressato, ero sotto pressione». Giuseppe Calabrò non cambia atteggiamento, continua a sfuggire alle domande di accusa, difese e giudice e la pazienza del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo si esaurisce.
LA “TRAPPOLA” «Chiedo la trasmissione degli atti per falsa testimonianza», dice il magistrato rivolgendosi ai giudici della Corte d’Assise di Reggio Calabria, abbondantemente stufi dopo due ore di risposte insensate e sempre uguali. Poi, scatta la “trappola” in cui Calabrò ha iniziato a infilarsi una settimana fa, alternando ricostruzioni insensate e fantasiose e fin troppi non so. «Il dichiarato formatosi nelle udienze del 19 e di oggi è chiaramente falso perché influenzato dalla condotta chiaramente intimidatoria della madre», dice Lombardo, che per questo ha chiesto di acquisire e rendere utilizzabili le dichiarazioni fatte da Calabrò nell’interrogatorio del 7 maggio 2014 e confermate con una missiva del giorno dopo. Le stesse che da quattro anni cerca disperatamente di smentire, senza mai risultare convincente.
IL PERCORSO A OSTACOLI Ex collaboratore dal percorso controverso e poco lineare, più volte pentito e poi pentito di essersi pentito e poi ancora di aver ritrattato, Giuseppe Calabrò nel maggio 2014 aveva iniziato a far luce sul vero motivo di quegli attentati ai carabinieri del 93-94 che gli sono costati uno degli ergastoli che è condannato a scontare. Anzi, con una missiva aveva anche annunciato anche ulteriori rivelazioni. Poi ha ritrattato nuovamente. Chiamato a testimoniare al processo “’Ndrangheta stragista”, che vede imputati il boss palermitano Giuseppe Graviano e quello di Melicucco, Rocco Filippone, con l’accusa di essere i mandanti di quegli attentati eseguiti da Calabrò, l’ex pentito non ha fatto chiarezza. Al contrario, trincerandosi dietro un muro di risposte evasive, illogiche e paradossali, con la sua palese reticenza sembra aver solo confermato il quadro inquietante che le indagini hanno individuato dietro quelle stragi e di cui altri pentiti hanno già parlato in dettaglio.
L’INCHIESTA Secondo quanto emerso dall’inchiesta coordinata dal procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo per la Dda della città calabrese dello Stretto e Francesco Curcio per la Dna, anche gli attentati di Reggio Calabria sono da inscrivere nella generale strategia della tensione avviata da mafie, settori dei Servizi, della massoneria e dell’eversione nera per mantenere il potere costruito anche nel mutato quadro politico e imporre i propri interlocutori politici. Uno scenario che diversi pentiti tanto siciliani come calabresi hanno disegnato con minori o maggiori dettagli, e indagini, anche autonome, hanno confermato.
LE CONFERME DI CALABRÒ Lo stesso ha fatto, almeno in un’occasione, Calabrò, con una missiva scritta e fatta correggere ad un compagno di cella. Non ha mai avuto il coraggio di spedirla, ma i magistrati ne sono venuti a conoscenza comunque perché il detenuto a cui aveva chiesto di sistemarla ha informato il direttore del carcere degli inquietanti contenuti. E il 7 maggio 2014, quando Calabrò è stato interrogato in proposito, ha riempito oltre settanta pagine di verbale con dettagli e particolari. Il giorno successivo, l’8 maggio, ha addirittura scritto (e questa volta inviato) una lettera per annunciare «ulteriori importanti rivelazioni» su cui aveva deciso di tacere a causa della presenza di un difensore che non conosceva. Due giorni dopo però con un’ulteriore missiva si è rimangiato tutto.
L’INUTILE (E INCREDIBILE) RITRATTAZIONE Nessuno ha creduto a quella ritrattazione. Né i magistrati, né il gip che insieme agli elementi contenuti nella richiesta di custodia cautelare, l’ha analizzata prima di ordinare l’arresto di Filippone e Graviano. Tanto meno la Corte di fronte alla quale anche oggi è toccato suo malgrado deporre. Il suo – sembrano concordare tutti – è un comportamento illogico. E illogiche appaiono anche le risposte date nel corso dell’esame da Calabrò.
FREECLIMBING SUGLI SPECCHI «Per gioco» – sostiene – avrebbe scritto la lettera in cui confermava l’esistenza di una strategia stragista. «Per darmi credibilità» avrebbe affermato di aver visto Giovanni Aiello, l’ex poliziotto ritenuto dagli inquirenti il killer di Stato “Faccia di mostro” ma morto prima che arrivasse una sentenza ad affermarlo. «Perché lo avevo visto in tv», prova a giustificarsi, ma in quel periodo – gli ricorda il pm, facendolo annaspare – sul personaggio non era stato fatto nessun approfondimento televisivo. E sotto interrogatorio, lui con alle spalle decenni di galera e innumerevoli interrogatori, di fronte ai magistrati avrebbe confermato tutto e aggiunto dettagli «perché ero stressato» o «ero confuso» o «avevo paura». Motivo? «Perché non dicevo la verità», afferma in aula Calabrò. Peccato, gli ricorda Lombardo, che anche in quel pomeriggio del 2014 avesse tentato di propinare ai magistrati una versione di comodo su quegli attentati, salvo poi avere una reazione di puro terrore – tanto da lanciarsi contro una parete, tentando di battere la testa contro il muro – al primo accenno alla lettera e ai suoi contenuti. «Avevo paura», ripete ostinato Calabrò, infilandosi nell’ennesimo vicolo cieco. Perché – gli ricorda Lombardo – in quel momento non aveva ancora detto o fatto nulla che lo potesse indurre a temere per la propria vita. L’ex pentito tace, cambia argomento, alza la voce, tenta di coprire urlando le domande del procuratore aggiunto, ma si ingarbuglia e alla fine ne esce solo con una sequela ossessiva di «non c’è nulla di vero». Un’affermazione ripetuta mille volte come un mantra, ma che non basta ad esorcizzare i demoni.
IL PESO DELLE PAROLE In bilico fra la determinazione a collaborare e quella di restare in silenzio, Calabrò – spiega alla fine Lombardo –ha finito per cedere alle pressioni dell’ambiente di ‘ndrangheta in cui è nato e cresciuto e di cui la sua famiglia di sangue è parte integrante. Per questo ha ritrattato. In più, a convincerlo ci ha pensato la madre, Marina Filippone, sorella del boss di Melicucco oggi imputato in “’Ndrangheta stragista”, che dal maggio 2014 al gennaio 2015 ha incontrato il figlio in carcere quasi ogni dieci giorni. E quei colloqui, tutti intercettati e videoregistrati, al pari delle fin troppo regolari telefonate che la donna ha fatto al figlio, raccontano di un lavoro di intimidazione continuo. «I rimandi lessicali che la Filippone adopera – spiega il procuratore aggiunto, sintetizzando i contenuti di quei colloqui – sono chiaramente di ‘ndrangheta. Calabrò non ha paura della madre, ma ha paura del contesto di ‘ndrangheta in cui la sua famiglia ha sempre vissuto e di cui Rocco Santo Filippone è l’esponente di vertice. “Fedeltà, fedeltà, fedeltà” alla famiglia gli dice la donna e intende la famiglia di ‘ndrangheta».
LA LEGGE DI MARINA Il figlio ha già parlato in passato, ha ceduto e quindi – spiega Lombardo – la donna Marina Filippone non può permettersi di sbagliare, di farlo deragliare. Sa che Villani e Lo Giudice stanno parlando. Lo riferisce al figlio e i termini che usa per indicarli – afferma il procuratore – sono significativi perché «parla del Nano, che è il nome con cui Lo Giudice è conosciuto in ambiente di ‘ndrangheta» e dà a Villani «non del millantatore o tragediatore, ma del cornuto, cioè il traditore, l’elemento pericoloso perché a conoscenza di cose vere che non doveva dire». Ed è un rischio – ricostruisce Lombardo – per quel contesto di ‘ndrangheta in cui Marina Filippone si muove e di cui suo fratello Rocco, oggi imputato, è elemento di vertice.
ONORI E ONERI DELLA CHIAREZZA Per questo con il figlio non può parlare in modo criptico, ma deve correre il rischio di essere molto chiara. «Marina – riassume Lombardo – dice al figlio “devi tornare tutto indietro, devi farti tutto il carcere e non parlare mai. Fedeltà, fedeltà, fedeltà e bocca chiusa e non sbagli mai” gli dice. Il sentimento di madre retrocede di fronte alla comune fedeltà al clan». Per quelle minacce, Marina Filippone è finita sotto indagine e altrettanto farà il figlio per «le palesi sciocchezze» dette in aula. Ma proprio alla luce di questo, il procuratore ha chiesto che vengano acquisite agli atti del processo le dichiarazioni rese durante l’interrogatorio del 2014 e la missiva inviata subito dopo. Un’ipotesi contro cui le difese hanno alzato barricate e su cui toccherà al tribunale decidere, ma che rischia di rendere assolutamente vani tutti i tentativi di Calabrò di smentire quanto si è lasciato sfuggire in passato. (a.candito@corrierecal.it)
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