Sono stati a un passo dal trovarsi nel mezzo di una faida di ‘ndrangheta, una guerra che stava per scoppiare all’interno del “locale” di Legnano e Lonate Pozzolo, nel Varesotto (ne abbiamo scritto qui). Da un lato i Filippelli, calabresi di Cirò, dall’altro loro, i De Castro, di origini palermitane ma affiliati alla cosca lombarda che manteneva un filo diretto con Cirò, nel Crotonese. Poi sono arrivati, a luglio, gli arresti dell’operazione antimafia Krimisa che ha fatto luce sugli interessi dei clan anche per i parcheggi di Malpensa. Quindi, per i De Castro, la decisione di collaborare con la giustizia, un pentimento di un certo peso perché è il primo, nella ‘ndrangheta lombarda, dopo quello, storico, di Antonino Belnome, che ha saltato il fosso in seguito al maxi blitz Infinito-Crimine del 2010. Ma c’è un’altra cosa che rende unica la storia dei De Castro: è stato il figlio 29enne, Salvatore, a convincere il padre, Emanuele (51 anni), a pentirsi.
«Sono stanco di questo stile di vita, soprattutto di quella di mio padre. Io stesso l’ho indotto a fare questa scelta». Così, racconta il Corriere della Sera, la mattina del 13 settembre il giovane spiega la sua decisione ai pm di Milano. Il padre di Emanuele, il «siciliano», è stato «battezzato» a ridosso della Pasqua del ’97 e nella ‘ndrangheta ha scalato le gerarchie al fianco del capolocale di Legnano Vincenzo Rispoli. Prima degli arresti di luglio era arrivato al ruolo di «capo società», vice reggente della cellula calabrese di Legnano che però era in contrasto con il suo “pari grado” del Crotonese, Mario Filippelli. Oggi anche lui come il figlio, anzi grazie al figlio, è diventato un collaboratore di giustizia. Una scelta certo non facile, per chi è cresciuto in certi ambienti. Una scelta «di famiglia», come la racconta lo stesso Emanuele De Castro: «Ho deciso di collaborare perché non voglio che mio figlio faccia ‘sta fine come l’ho fatta io. Perché sono stanco, mi sembra una vita assurda. Non lo so, è venuto il momento di… vorrei vivere una vita tranquilla con la mia compagna e la mia bambina».
In due mesi, padre e figlio hanno riempito centinaia di pagine di verbali raccontando ai pm le dinamiche interne e gli interessi delle cosche al Nord, compresi i legami con la politica, l’imprenditoria, la pubblica amministrazione.
«Io spacciavo droga. Non sono mai stato battezzato, mio padre non voleva che lavorassi per “loro” – ha raccontato Salvatore De Castro –. Mi diceva di starne fuori». Appena il figlio ha compiuto 18 anni, il padre gli ha confessato di essere un mafioso: «Gli chiedevo dei suoi viaggi in Calabria, del motivo per cui frequentasse Rispoli: tutti sapevano che senza il suo assenso qui non poteva muoversi foglia. E mi disse che apparteneva alla ‘ndrangheta». (spel)
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