COSENZA A battezzarlo quando il carcere di Cosenza si trovava ancora a colle Triglio fu proprio il boss Antonio Sena. Vincenzo Dedato, con il tempo, divenne uno dei gerarchi della criminalità cosentina. Un uomo di peso che nei ranghi della ’ndrina Pino-Sena ricoprì il ruolo di “tesoriere” della consorteria criminale. Pezzo forte degli “italiani”. Quando nel 2007 quello che per molti era considerato potente quasi come un ministro delle finanze, decise di collaborare con la giustizia, ai magistrati offrì la possibilità di avere informazioni sui delitti di ’ndrangheta più eccellenti che avvennero a Cosenza e provincia.
Non solo, Dedato ai pm antimafia diede indicazioni utili su come le cosche raggiunsero la pace, stringendosi mani e giurandosi vendetta, pur di spartirsi il territorio. Nei delitti eccellenti avvenuti in città spesso ha partecipato in prima persona, di altri, come per il duplice omicidio Chiodo-Tucci prova a raccontare tutto quello che sa e che ricorda. Per questo il pm Camillo Falvo lo ha inserito nella sua lista testi e Dedato da sito protetto, prova a chiarire gli aspetti della vicenda accaduta a via Popilia il 9 novembre del 2000. Del duplice delitto sono accusati: Antonio Abbruzzese alias “Strusciatappine”, Fiore Abbruzzese detto “Ninuzzo”, Luigi Berlingeri noto come “Occhi di ghiaccio”, Saverio Madio e Celestino “Ciccio” Bevilacqua; il processo è in corso alla Corte d’Assise del tribunale di Cosenza. «Tra “italiani” e “zingari” negli anni in cui sono morti Benito Chiodo e Francesco Tucci i rapporti non erano buoni – dice Dedato in udienza -. Sì ci scambiavamo dei convenevoli amichevoli, ma solo sulla carta. I fatti erano diversi tanto è vero che molti zingari che abitavano a via Reggio Calabria li battezzammo noi per tentare di creare un nuovo accordo con un ceppo diverso dagli Abbruzzese». Dedato sembra ricordare gli anni di piombo della Cosenza sotto assedio delle cosche, ma sul perché ci fosse lo zampino di Antonio Abbruzzese nella morte di Chiodo e Tucci risponde secco: «È una deduzione, poi sbaglio o è andata così?» risponde all’avvocato Nicola Rendace intento a sollevare delle contestazioni. «Eravamo detenuti, all’epoca stavamo in celle diverse ma durante l’ora d’aria riuscivo a colloquiare con Mario Gatto Francesco Amodio». Del delitto di via Popilia, il pentito, riferisce di averne avuto conoscenza solo in modo indiretto. «Una nipote di Bevilacqua era la compagna di Amodio, gli riferì di quello che era successo e poi ne parlammo durante la detenzione».
La differenza è una, ma sostanziale: Vincenzo Dedato e Benito chiodo erano dediti alle estorsioni ma: «Mentre io – aggiunge il collaboratore – mi dedicavo a quelle “industriali”, Chiodo faceva il giro delle attività e degli esercizi commerciali». Le attività “industriali” come emerso nell’operazione Tamburo riguardano le estorsioni chieste dal clan per la realizzazione dei lotti autostradali. «Le nostre richieste estorsive sull’autostrada – prosegue Dedato – arrivavano fino a Tarsia». «E gli Abbruzzese in tutto questo?» chiede il pm Camillo Falvo. «Loro non sono mai entrati nel nostro business delle estorsioni. Volevano inserirsi ma non glielo abbiamo mai permesso». Su input delle domande dell’avvocato Cesare Badolato, il testimone, ha poi parlato dell’omicidio di Valerio Marchio fatto di sangue ritenuto primigenio rispetto alla morte di Benito Chiodo e Francesco Tucci. «Marchio era in combutta con Franco Abbruzzese. Domenico Cicero ci dissero che non tornavano i conti rispetto ad alcuni soldi da mandare ai detenuti. Allora insieme a Ettore Lanzino, Carmine Chirillo, Domenico Cicero decidemmo di ucciderlo sotto Serra Spiga». Nella prossima udienza, saranno ascoltati altri due collaboratori: Cosimo Alfonso Scaglione e Antonio di Dieco. (mipr)
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