di Sergio Pelaia
Sebbene non fossero finora mai stati raggiunti da accuse di mafia, non sorprende che i capi delle “famiglie” delle Preserre imponessero il loro dominio perfino sulla fiera della Madonna delle Grazie di Torre di Ruggiero. Nel piccolo paese, situato nella zona di cerniera tra lo Jonio catanzarese e le montagne dell’entroterra vibonese, la festa patronale è molto sentita, tanto da attirare ogni anno migliaia di visitatori provenienti anche da centri calabresi lontani parecchi chilometri. I Chiefari, finiti al centro dell’operazione antimafia “Orthrus” (qui i nomi e qui i dettagli), secondo i magistrati della Dda di Catanzaro gestivano gli spazi della fiera e a loro si rivolgevano molti commercianti «al fine di essere “autorizzati” a montare gli stand a Torre». Ma questo, così come la presenza in prima fila del presunto boss Antonio Chiefari tra i portatori della statua della Madonna, è un elemento più simbolico che economico, utile ad affermare agli occhi dei paesani il dominio del clan. Anche se non meno importante, è però l’aspetto imprenditoriale della cosca a saltare agli occhi. Se non altro perché conferma quanto si sospetta da decenni: la ‘ndrangheta si è arricchita con i lavori della Trasversale delle Serre. Opera simbolo delle incompiute calabresi, la statale 713 dovrebbe collegare con una strada a scorrimento veloce lo Jonio e il Tirreno passando per le Serre: se ne parla ormai da 50 anni e, ad oggi, ne sono stati completati 37 km a fronte dei 56 che dovrebbero costituirne l’intero tracciato.
I RITARDI, GLI SPRECHI E GLI APPETITI DEI CLAN Di recente la Guardia di finanza di Vibo ha concluso un’indagine finanziaria sui lavori della Trasversale e ha segnalato alla Corte dei conti un potenziale danno erariale di oltre 56 milioni di euro, specificando che i tempi contrattuali si sono dilatati del 300% con «un incremento pari al 46% circa dell’importo dei lavori». Ieri invece il procuratore aggiunto Vincenzo Capomolla ha detto chiaro e tondo che il prolungarsi dei lavori «è stato fonte di arricchimento per le cosche». E in effetti anche il gip Paola Ciriaco, che ha vergato l’ordinanza di custodia cautelare contro le cosche di Torre (i Chiefari) e Chiaravalle (gli Iozzo), scrive: «Il controllo sul territorio attraverso la forza di intimidazione del vincolo associativo è messo in primo luogo in evidenza dalle interferenze nelle attività economiche della zona, ed in particolare, sulle grandi opere relative alla costruzione della “Trasversale delle Serre”, per come riferito dai collaboratori di giustizia sul punto». Lo stesso controllo veniva imposto anche sugli appalti boschivi e sui lavori di movimento terra.
LE SOCIETÀ INFILTRATE E I MEZZI NEI CANTIERI Nell’inchiesta sono coinvolti anche i titolari di una società che avrebbero consentito a uno dei fratelli Iozzo di effettuare investimenti nell’acquisto di mezzi utilizzati nei cantieri. C’è poi un’altra società, secondo gli inquirenti riconducibile ai Chiefari, che ha stipulato dei contratti di noleggio di macchinari in favore dell’Ati che si era aggiudicata l’appalto. Si tratta di un’azienda che nel maggio del 2006 era stata allontanata dai cantieri in virtù di un’informativa riservata inviata dalla Prefettura di Vibo all’Anas. Ma nonostante ciò la società avrebbe continuato a operare almeno fino al 2007. Il pentito Giuseppe Perricciolo racconta infine che nella stessa cerimonia, tenutasi a Vibo, in cui a lui era stata conferita la dote di “sgarrista”, a Chiefari era stato affidato il “locale” di Chiaravalle e Torre che era stato creato proprio in quella occasione. E il collaboratore conferma anche che i Chiefari e gli Iozzo percepivano somme a titolo estorsivo dagli imprenditori che lavoravano sulla Trasversale.
L’INCENDIO DELL’ESCAVATORE E I CONTRASTI TRA CLAN A ottobre del 2008 i Chiefari hanno subìto l’incendio di un escavatore impegnato nei cantieri e, secondo quanto emerge dalle indagini e dalle dichiarazioni dei pentiti, l’episodio sarebbe riconducibile ai contrasti con il cartello delle cosche Sia-Procopio-Tripodi, legato ai Vallelunga di Serra San Bruno, perché la famiglia di Torre aveva disatteso quanto era stato deciso in una riunione con il boss Damiano Vallelunga – ucciso dieci anni fa a Riace – in cui era stata concordata la spartizione dei proventi del territorio. Il capo del “locale” di Serra San Bruno, secondo quanto raccontato dal pentito Gianni Cretarola (ne abbiamo scritto qui già a gennaio del 2017), era formato da sette ‘ndrine operative in altrettanti paesi: Torre di Ruggiero (Chiefari), Chiaravalle (Iozzo), Soverato (Sia), San Sostene (Procopio e Lentini) e Vallefiorita (Bruno). I capi delle sette famiglie erano presenti al summit di cui parla il pentito, in cui si era stabilito che il territorio di Gagliato era di competenza di Massimiliano Sestito, mentre «il paese di Argusto – molto vicino a Chiaravalle – era diviso a metà fra i Sestito e gli Iozzo». Ma dopo che Damiano Vallelunga era stato ucciso i patti non sarebbero stati rispettati. «Quando infatti – raccontano i pentiti Cretarola e Bruno Procopio, figlio del boss Fiorito – un escavatore di Antonio Chiefari è stato portato a Gagliato per effettuare dei lavori, i Sestito e Vittorio Sia (boss ucciso ad aprile 2010 a Soverato, ndr) lo avrebbero danneggiato per ritorsione dandogli fuoco».
«SONO I QUATTRO MALANDRINI DELLA FAMIGLIA» Qulli dei Chiefari e degli Iozzo sono due nuclei familiari che hanno una propria autonomia e interessi diversi. Ma in un territorio in cui i paesi sono quasi attaccati uno all’altro i punti di contatto, familiari e di business, sono inevitabili. Perricciolo parla infatti anche dell’affiliazione di Mario Iozzo e dice che ad opporsi era proprio Antonio Chiefari, sia perché Iozzo stava per sposare una sua nipote (figlia di una sorella di Chiefari) sia perché temeva che i quattro fratelli di Chiaravalle potessero, essendo numerosi, prendere il sopravvento sul territorio. Un altro pentito, Domenico Todaro, dice chiaro ai pm: «Mario Iozzo è un capo di ‘ndrangheta a Chiaravalle». E a maggio del 2017 è direttamente suo figlio Raffaele ad affermare, intercettato: «Soverato ce l’avevano mio padre e mio zio Luciano.. glielo hanno dato a Sia perché a Sia lo hanno portato loro dentro Soverato». E ancora, Raffaele Iozzo, riferendosi al padre e agli zii Pino, Luciano e Gianfranco, ammetteva: «…Sono i quattro malandrini della famiglia». (s.pelaia@corrierecal.it)
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