REGGIO CALABRIA I depistaggi di Stato che hanno nascosto la verità sulla morte del padre, la lotta per ottenerla, i silenzi, le omissioni. Fiammetta Borsellino combatte da 27 anni per sapere chi ha ordinato la morte di suo padre, chi l’ha pianificata, quando, come e soprattutto perché. «Non esiste una strada verso la giustizia che non passi per la verità. È un diritto sancito nella nostra Costituzione. Un Paese che rimane con la ferita di una verità negata – tuona – temo non possa avere futuro». Non è un’accusa, o meglio non solo. È un appello. A tutti. «Questa vicenda non riguarda solo noi familiari, riguarda tutta l’Italia».
STORIA DI UN DEPISTAGGIO DI STATO Invitata a Reggio Calabria dal movimento antimafia “Reggio non tace” Fiammetta Borsellino parla di quel depistaggio iniziato pochi minuti dopo la strage, quando la scena del crimine è stata inquinata, lasciata alla mercè di curiosi, improvvisati, personaggi senza nome. Come l’anonimo agente – o sedicente tale- che ha preso in consegna la borsa del magistrato, tornata alla famiglia qualche giorno dopo ma senza l’agenda rossa. Lì dove Borsellino conservava appuntamenti, impressioni, confidenze. Lì dove forse c’erano le intuizioni sulle “menti raffinatissime” che 57 giorni prima avevano ordinato l’esecuzione dell’amico e collega Giovanni Falcone. E non erano menti di mafia, non potevano solo menti di mafia. Borsellino lo sapeva, cercava le prove e proprio per questo probabilmente è stato ucciso. Le stesse – plausibilmente – che negli anni hanno costruito il depistaggio che ha nascosto la verità sulla morte di suo padre.
OPERAZIONE GROSSOLANA Dalla scena del crimine inquinata all’indagine affidata ad un pool di magistrati «inesperti, troppo giovani o notoriamente affiliati alla massoneria», dalle prove sparite o mai cercati, ai testimoni mai convocati, al processo inquinato dal falso pentito Vincenzo Scarantino. «Un’operazione così grossolana – dice Fiammetta Borsellino – da essere un’offesa alla nostra intelligenza e ha avuto il peggiore effetto nel passare del tempo». E nel tempo ricostruire la verità è sempre più complicato perché le prove spariscono, i testimoni muoiono. Come Arnaldo La Barbera, capo della Squadra Mobile di Palermo e poi Questore, «considerato il principale coordinatore del depistaggio» dice la Borsellino, ma morto da anni e che non può più parlare.
«FIDUCIA NELLO STATO». O ALMENO IN PARTE Nuove ferite che allargano una cicatrice che non si può rimarginare, ma che – dice Fiammetta – «non possiamo non avere fiducia nello Stato, perché se oggi possiamo parlare di depistaggio è grazie al lavoro di alcuni magistrati con il Borsellino Quater. Non avere fiducia nelle istituzioni sarebbe rinunciare all’eredità di mio padre». Non è un assegno in bianco, nella pancia della Repubblica – dice chiaramente la Borsellino – non sono tutti uguali. «Bisogna decidere da che parte stare. Questa è stata la scelta di tanti che vivono il proprio lavoro come una missione».
IL DOVERE DI SAPERE Ma non è e non può essere neanche una delega. Ognuno – tuona – deve fare la propria parte, a partire dal dovere di conoscere, di sapere. «La vera lotta alla mafia non si fa né con le pistole, né con le conoscenze giuste, ma con la scuola, che insegna diritti e doveri. La vera lotta alla mafia si da sconfiggendo il “me ne fotto”, il girarsi dall’altra parte, perché la mafia si nutre di paura e omertà». E l’antimafia di facciata, di passerelle e premi «dati con logiche clientelari che ricordano la mafia» non serve a nulla. «Attaccare il bollino “io non pago il pizzo” è facile, lo può fare anche un mafioso».
IL FALLIMENTO DEL 41BIS Forse, suggerisce Fiammetta Borsellino che ha chiesto e ottenuto di incontrare in carcere i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, veri mandanti dell’omicidio del padre, bisogna anche ripensare ai metodi di contrasto. «Io non esulto –dice – perché ci sono persone al 41bis. Anzi forse lo ritengo addirittura un fallimento. Credo che un mafioso debba essere stimolato, ma con uno psicologo ogni 200 detenuti questo non è possibile e questo non è compatibile con la natura rieducativa del carcere. «La soluzione non è “costruiamo più carceri” o “chiudiamo le celle e buttiamo la chiave” perché questa è la logica dei muri e non porta da nessuna parte – spiega – Vive e muore con dignità anche chi, avendo fatto del male, lo riconosce e ripara il danno».
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