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Integrazione criminale. I rom di Crotone e la coca dei clan della Piana di Gioia Tauro

Dalle carte dell’inchiesta “Acquamala” emergono i legami (e gli affari) tra le cosche di «taliani» e gli «zingari» a cui hanno «subappaltato» lo spaccio. Una joint venture che si crea (e rischia di…

Pubblicato il: 24/10/2019 – 20:36
Integrazione criminale. I rom di Crotone e la coca dei clan della Piana di Gioia Tauro

di Sergio Pelaia
Da una parte la politica che non ha evidentemente interesse a evitare che si creino quartieri ghetto che diventano isole di spaccio. Dall’altra la ‘ndrangheta che a loro ha «subappaltato» un settore redditizio. In mezzo gli «zingari», con i quali quelli che loro chiamano «taliani» non disdegnano di fare affari. Purché paghino, ovviamente. Perché è solo per i soldi che l’integrazione criminale supera i confini della diffidenza e del razzismo, ed è sempre per i soldi che la joint venture rischia di rompersi. Con tutte le conseguenze del caso.
Nell’inchiesta “Acquamala” (13 arresti e 57 indagati a Crotone, qui i dettagli) gli investigatori dei carabinieri coordinati dalla Dda di Catanzaro non hanno scoperto solo che venivano utilizzati dei minori per spacciare droga davanti alle scuole, ma hanno anche focalizzato i legami che l’organizzazione che aveva il suo feudo nel quartiere rom di Acquabona coltivava con famiglie di ‘ndrangheta della Piana di Gioia Tauro. E proprio nel Reggino, a Rizziconi, accade uno degli episodi che fanno capire quali siano le dinamiche che governano certi ambienti.
L’«INGUACCHIO» DI QUELLI DI CATANZARO Al centro dell’inchiesta c’è il 54enne Cosimo Manetta. Sarebbe lui, secondo gli inquirenti, a comandare lo spaccio nel quartiere rom di Crotone. Il 18 dicembre del 2015 i suoi familiari si allarmano: lui è fuori città e il suo cellulare rimane muto per ore. I figli provano a chiamarlo, ma nulla. Torna raggiungibile solo a tarda sera, poco dopo le 23, e subito chiama il figlio 32enne, Nicola, per dirgli che era «successo un bordello». Gli dice che gli avrebbe spiegato tutto poco dopo, appena si sarebbero visti, a Catanzaro, dove il figlio risiede. Cosa fosse successo lo si capisce da alcune conversazioni intercettate nei giorni successivi: Manetta parla con una donna e le spiega che quella sera è stato bloccato a Rizziconi perché gli ha «combinato un inguacchio quello di Catanzaro», riferendosi probabilmente al figlio. Aggiunge che «eravamo chiusi dentro un magazzino» perché «avevano visto che volevo fare il furbo io», così «hanno mandato a quattro cornuti di taliani» che gli hanno detto: «Da qua non ve ne andate più, se qua non arrivano i soldi». Quella sera è tornato a casa «che erano le due di notte e si erano allertati tutti quanti». L’«inguacchio», a suo dire, «lo hanno combinato questi di Catanzaro», però «come garante» c’era lui.
SEQUESTRATO IN UN MAGAZZINO DI RIZZICONI Un sequestro di persona, insomma, in un magazzino di Rizziconi, per un debito di droga. Un debito grosso, riferito a due chili di cocaina che, secondo gli inquirenti, Manetta avrebbe acquistato da Filippo Raso, uno dei 13 arrestati, già condannato in via definitiva per ‘ndrangheta, e dal cognato Domenico Luccisano, per il quale però il gip ha rigettato la misura richiesta «per assenza di elementi capaci di attualizzare le esigenze cautelari». L’acquisto lo ha fatto in società con altre due persone, cioè il figlio e un altro “catanzarese”. Ma Cosimo Manetta non riesce a pagare con puntualità e ciò causa la reazione di Luccisano, che «gestiva gli affari durante la detenzione di Raso». Il garante è lui e anche se prova a giustificarsi con varie motivazioni (proprio il figlio, mentre lui era allettato per una malattia, gli avrebbe rubato 1,6 kg di droga) nell’ambiente la tensione sale. Ci sono numerosi incontri e provano a mettersi in mezzo diversi “mediatori”, ma la cosa degenera fino al sequestro nel magazzino di Rizziconi. Per ripianare il debito Manetta, tra l’altro viene «costretto a impossessarsi dell’auto» di un 36enne, che a sua volta gli doveva dei soldi, «per poi girarla a Luccisano».
IL DITO SUL TAVOLO E LA MINACCIA: «TI TAGLIO LA MANO» Nel corso di una conversazione avvenuta circa un mese dopo, Manetta si sfoga con il suo interlocutore spiegando che quando la negoziazione avveniva con Raso, quest’ultimo gli aveva concesso una serie di dilazioni e sconti. Ma quando Raso era finito in carcere e gli era subentrato Luccisano «era cominciata una sorta di “guerra”, tant’è che Manetta Cosimo – si legge nelle carte dell’inchiesta – aveva detto a Luccisano che “io gli accordi li avevo presi con tuo cognato, che tu, non che non c’entri niente, non c’eri presente quando abbiamo preso gli accordi”». Manetta prosegue il suo racconto spiegando che la sera in cui era stato sequestrato Luccisano gli aveva detto, minacciandolo: «Io vado a prendere le persone fino a dentro, e le sotterro». Manetta avrebbe risposto: «Tu, prima di ogni cosa che sono qua solo, se mi vuoi sotterrare, sotterrami mò, se tieni il coraggio». Poi aggiungeva che l’aggressività di Luccisano era stata causata anche dall’atteggiamento del figlio, che durante un incontro tenutosi a Catanzaro, avrebbe detto a Luccisano, che a suo dire «tiene il vizio che parla con il dito sul tavolo»: «Il dito sul tavolo non lo sbattere che ti prendo la mano e te la taglio». (s.pelaia@corrierecal.it)

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