Come e quanto i (non) temi catturano l’attenzione dei calabresi. Appare del tutto evidente che in questa campagna elettorale, livida, livorosa e assolutamente priva di contenuti, i toni si accendono solo su chi (non) dovrà essere il candidato presidente di questa o di quella coalizione, ammesso che alla fine in Calabria, da una parte e dall’altra, si riesca a trovare il giusto compromesso.
E c’è fin troppo spazio per i leader nazionali (tutti), sempre più arroganti e autoreferenziali, che sui social (rigorosamente senza contraddittorio) ci somministrano sterili polemiche e prospettive fin troppo fantasiose.
Ma nel caso della Calabria, i like (per lo più prodotti da sostenitori già arruolati alla causa) non si trasformeranno altrettanto rapidamente in voti perché ci vuole ben altro, questa volta, per impressionare un popolo sull’orlo di un precipizio. La lista degli (o)errori commessi dai passati governi è fin troppo lunga, variegata e trasversale.
Cambiamo prospettiva. Da oggi, il Corriere della Calabria amplificherà la voce della competenza che prevale sul pressapochismo, della trasparenza che squarcia le troppe opacità, dell’autorevolezza che silenzia l’ignoranza dei leoni da tastiera.
E lo faremo attraverso la tenacia di chi, lontano da logiche partigiane, ci mette la faccia, dice la sua e abita già nella “regione che vorrei”. (paola.militano@corrierecal.it)
di Francesco Creazzo
Un patrimonio di luoghi perduti, alberi sconosciuti, coste segrete e fondali dimenticati. Questa è la Calabria raccontata da Francesco Bevilacqua: scrittore, naturalista, storico e attivista per l’ambiente, ama definirsi «cercatore di luoghi perduti». Quando qualcuno gli chiede cosa fa nella vita, risponde: «Curo una malattia epidemica in Calabria, l’amnesia dei luoghi, provo a risvegliare i calabresi dallo stato di coma topografico in cui versano. Pratico una terapia che chiamo oikofilia, ossia amore per la propria casa, la terra, il paese. Lo faccio con metodi naturali: libri, foto, filmati, narrazioni».
Un patrimonio naturalistico e paesaggistico, quello della Calabria, che non ha bisogno di presentazioni – o forse sì, dato che la sua estensione sfugge agli stessi calabresi – e che dal punto di vista turistico resta tuttora una miniera d’oro in cui in pochissimi si sono premurati di scavare. Basta confrontare i dati dei visitatori del Parco nazionale del Gargano a quelli dell’Aspromonte per cogliere la differenza: in Puglia, oltre 4 milioni di visitatori annui, sulle montagne del Reggino poco meno di 300mila.
Per Bevilacqua si tratta innanzitutto di un problema culturale, prima che economico: non si possono raccontare i propri luoghi, se non li si conosce.
Lei insiste molto sulla “memoria dei luoghi”, in che modo bisogna riscoprire casa propria? Cosa ha a che fare tutto questo con la società, con la politica?
«La memoria, paradossalmente, ha a che fare innanzitutto col futuro, con la creatività con l’innovazione. L’esperienza dimostra – in particolare al Sud e in Calabria – che sul piano economico e sociale funziona solo ciò che si è fatto ricordando, avendo il culto della memoria: pensiamo ai campi dell’enogastronomia, dell’agricoltura, del turismo di qualità, della piccola industria manifatturiera, della promozione sociale. Iniziative e intraprese funzionano solo se si innestano su ciò che esiste già, sul territorio, sul paesaggio, sulla cultura, sui saperi locali, sulla riscoperta dei luoghi. Ogni altra cosa che non abbia radici risulta estranea e viene, prima o poi, rigettata, respinta. Il fraintendimento dello sviluppo, che ha percorso inesorabilmente tutto il dopoguerra ed è arrivato sino a noi al prezzo del saccheggio del territorio e del deperimento delle attività economiche tradizionali, è stato possibile per l’aggravamento esponenziale di quel complesso di inferiorità della civiltà contadina calabrese rispetto alla civiltà industriale del Nord Italia che denunciarono protagonisti della vita culturale del Novecento come Carlo Levi, Pierpaolo Pasolini, Giuseppe Berto. Ecco perché dico che alla perdita di memoria, all’amnesia dei luoghi, al coma topografico si risponde con vere e proprie cliniche dei risvegli che somministrino ai pazienti dosi massive di “oikofilia”, amore per la propria patria, per la propria terra. Ovviamente non intendo un amore possessivo e retorico, una passione asfittica ed esclusiva, ma un sentimento di ri-conoscenza aperto, plurale, inclusivo».
Tre parchi nazionali e uno regionale, una biodiversità straripante, luoghi unici spesso sconosciuti agli stessi calabresi. Perché la Calabria non capitalizza, anche economicamente, il suo patrimonio naturalistico e paesaggistico?
«Qualche tempo fa dissi all’assessore regionale alle attività produttive, durante un incontro, che il suo assessorato avrebbe dovuto essere accorpato con quello dell’urbanistica, che si occupa anche del paesaggio. Mi chiese perché. E io risposi: “Perché la più importante attività produttiva della Calabria è il paesaggio”. E con questo termine non intendo i prati e i fiori o le vedute cartolinesche ed oleografiche. Mi riferisco a quel coacervo di natura e cultura, di spazi geografici e contenuti identitari, di elementi ambientali e segni antropici che è il paesaggio, così come è stato riconosciuto dalla Convenzione Europea del Paesaggio e dal Codice dei Beni Culturali ed Ambientali. Senza mai dimenticare l’articolo 9 della Costituzione che fu scritto e strenuamente difeso da due uomini come Concetto Marchesi e Aldo Moro. Mi piace dire che non esiste una comunità senza paesaggio, ma neanche esiste un paesaggio senza comunità».
In che senso?
«Tutte le esperienze economiche, produttive e sociali che si sono positivamente sviluppate in Calabria negli ultimi vent’anni hanno a che fare con il territorio. Qualche esempio: i famosi orafi calabresi si ispirano alla tradizione, e così tutti gli altri artigiani di successo; l’industria dell’accoglienza funziona solo se è legata al paesaggio ed alle sue opportunità; l’enogastronomia e l’agricoltura sono intrise di paesaggio; perfino le start up più innovative sono immerse nel paesaggio e in tutto ciò che esso può ispirare. Negli ultimi anni, nel silenzio assordante dei media e nel disinteresse della politica, un gran numero di stranieri si è riversato in Calabria in cerca dei nuovi lussi delle società post-moderne, che, secondo Thierry Paquot, sono lo spazio, il tempo e il silenzio. Per tanta gente del Centro e del Nord Europa, diceva Pedrag Matvejevic, il Mediterraneo è un destino. Ma perché questo destino si compia occorre che la politica da un lato e i calabresi dall’altro prendano coscienza dell’importanza, dell’eminenza, dell’attrattività dei luoghi in cui vivono. Mi è capitato di recente di accompagnare, durante una manifestazione, un gruppo di persone in una passeggiata fra i boschi. Appena usciti su una rupe panoramica, abbiamo visto, oltre i monti e la valle sottostante, un paese arroccato su un colle sullo sfondo del mare. Un signore si è avvicinato decantando la bellezza di quella veduta inattesa e mi ha chiesto: “E quel paese qual è”. Ho risposto dicendo il nome del paese. L’ho visto arrossire. Ho domandato chi fosse: era il sindaco del paese».
Scendendo verso la costa la situazione non migliora: da Cetraro a Crotone, passando per il torrente Petrace, sono troppe le storie di veleni che coinvolgono le acque calabresi. Anche dal punto di vista produttivo, le coste sono dimenticate: pochissimi i porti turistici, poche le aree protette…
«La Calabria è la terza regione italiana, dopo Sicilia e Sardegna, per lunghezza del perimetro costiero. È vero che buona parte delle coste sono state martoriate dal caos urbanistico. Ma è anche vero che per altra parte sono ancora pressoché intonse. Penso alla Costa Viola, o alla Costa dei Gelsomini e all’Arco di Sibari. Ma l’oro delle coste calabresi è nei loro fondali e nell’immediato entroterra. Non si possono rinchiudere i turisti nelle enclave dei resort e degli alberghi e nemmeno lasciarli vagare da soli senza qualcuno che racconti loro il territorio. Occorre favorire tutte quelle iniziative che servono a riscoprire fondali ed entroterra. Quanto ai veleni scaricati nei nostri mari o sepolti negli alvei delle fiumare e nelle campagne siamo di fronte alla prova di quanto gli stessi calabresi abbiano, per gran arte, in odio il loro territorio. Bisogna chiudere la fase della “malattia” ed aprire quella della “cura”».
Se dovesse indicare un luogo emblema dello stato di dimenticanza e abbandono in cui versa il patrimonio naturalistico calabrese, quale indicherebbe e perché?
«Il primo che mi viene in mente è l’alta valle del Raganello, a monte di Civita, nel Parco Nazionale del Pollino. Si tratta di un grande emiciclo di montagne, con tutt’intorno le cime più alte del parco, sui fianchi foreste, pascoli, coltivi, e in basso il torrente che s’incunea nei suoi famosi canyon. Nella valle alta vivono ancora diverse eroiche famiglie di pastori e contadini completamente abbandonate a se stesse. La strada asfaltata muore all’ingresso della valle. Poi inizia una strada sterrata completamente dissestata e percorribile solo in fuoristrada. D’inverno non viene neanche spalata dalla neve. Le famiglie rimangono isolate per giorni. Prima o poi la valle si spopolerà completamente, perché in quelle condizioni è davvero difficile vivere. Eppure la valle è la più straordinaria porta d’ingresso, dal lato calabrese, verso il cuore del parco. E se quelle famiglie fossero aiutate, potrebbero anche accogliere visitatori, integrare il loro reddito, innovare le loro attività, pur continuando a conservare le tradizioni».
Quali sono, a livello regionale, i primi tre provvedimenti da approvare per dare più valore all’immensa ricchezza della nostra natura?
«Ho sempre rifiutato di impegnarmi in politica e non ho mai accettato cariche pubbliche di alcun tipo, per cui rispondere a questa domanda mi viene difficile. Sono grato a chi si mette in gioco e fa politica o amministra la cosa pubblica. Per conto mio faccio politica dal basso perché penso che i cittadini, singoli o associati, siano essi stessi la più importante istituzione di una comunità che si rispetti. Ma non voglio sottrarmi alla domanda. Innanzitutto occorrerebbe riordinare, anzi modificare completamente il ciclo dei rifiuti: così come è congegnato, soprattutto sul piano legislativo ed amministrativo, non funziona e presto esploderà un’emergenza rifiuti in Calabria. In secondo luogo andrebbe posta al centro dell’azione politica la tutela dei beni culturali e del paesaggio, che dovrebbe essere la stella polare di ogni buona pratica amministrativa. E infine, con opportune iniziative culturali occorrerebbe aiutare i calabresi a riannodare il filo reciso fra essi e i loro luoghi». (redazione@corrierecal.it)
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