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«La Repubblica di Caulonia»

di Bruno Gemelli*

Pubblicato il: 27/10/2019 – 11:56
«La Repubblica di Caulonia»

“La Repubblica di Caulonia” rivive nel saggio di Ilario Ammendolia, “La ’ndrangheta come alibi” – Dal 1945 a oggi Prefazione di Mimmo Gangemi Intervista a Mimmo Lucano” (Città del Sole Edizioni Raggio Calabria – pag. 155 – marzo 2019). Ammendolia già nel 1975 scrisse un saggio sullo stesso argomento, “La Repubblica rossa di Caulonia – tra brigantaggio e rivoluzione” (Casa del libro – Reggio Calabria), assieme a Nicola Frammartino. In quasi mezzo secolo l’Autore ha consolidato la sua ispirazione garantista vivendo e soffrendo nella Locride che espone la sua cruda realtà; come diceva Leonardo Sciascia: «La mafia si combatte non con la tensione delle sirene, dei cortei e della terribilità. La mafia si combatte col diritto». Ammendolia in questa sua nuova fatica parte da Caulonia per arrivare a Riace, il paese di Mimmo Lucano che dista pochi chilometri.
E subito dichiara la genesi: «Questo “lavoro”, appena sei mesi fa, non esisteva – se non in maniera confusa – neanche nella mia testa. Ha preso forma nel momento in cui sono stati resi pubblici alcuni documenti relativi alla “Repubblica di Caulonia” e mentre prendeva corpo l’inchiesta su Riace che ha fatto scattare gli arresti del sindaco Mimmo Lucano. “Repubblica rossa di Caulonia” e “Riace” sono i punti estremi di partenza e di arrivo di un viaggio lungo 73 anni. Tra i due punti non c’è il vuoto ma la storia della Calabria che è storia d’un popolo sconfitto piuttosto che una vicenda criminale come alcuni vorrebbero far credere. Una Regione “vittima” di un unico disegno repressivo che ha utilizzato la “legalità” come arma verso i più deboli e la ’ndrangheta come alibi per la progressiva colonizzazione e criminalizzazione del popolo calabrese».
I nuovi documenti che produce Ammendolia si riferiscono al contesto storico che accompagnò l’arrivo sulla scena pubblica di Pasquale Cavallaro, protagonista della vicenda rivoluzionaria. Ma chi fu veramente Cavallaro? L’interrogativo non è banale perché egli ebbe tante definizioni. Ribelle, romantico, barricadiero, rivoluzionario, utopista, idealista, eroe, comunista, avventuriero. Persino ‘ndranghitista. Ma anche Don Chisciotte, Robin Hood, Robinson, ecc ecc. Nel maggio del 1968 rilasciò un‘intervista al giornalista e scrittore Sharo Gambino, il quale fissò la lunga conversazione su cinque nastri di un registratore Geloso che gli aveva prestato un amico. Un colloquio inoppugnabile. Una conversazione pregnante, una sorta di biografia orale. L’unica intervista organica rilasciata dal rivoluzionario a un comunicatore. I due si parlarono con il voi, la modalità calabrese per eccellenza.  Gambino pubblicò lo scoop in cinque puntate sul periodico “Calabria oggi” diretto da Pasquino Crupi.
«Ricordo l’emozione che mi prese quando – annotò Gambino -, nel 1962, ricevetti la prima lettera di Pasquale Cavallaro, il quale, nel ringraziarmi di una recensione ad un suo libro di poesie dialettali (“Lu comizio di li lupi”), mi manifestava stima e simpatia. Emozione perché   Cavallaro, divenuto un personaggio storico, io me lo portavo dentro fin da bambino, da quando, vale a dire, ne avevo inteso parlare (lo scrissi in “Fischia il sasso”) da un maestro di scuola su compaesano, il quale, conversando con mio padre, menava vanto di avergli dato uno schiaffo. Così, ai tempi della “Repubblica”, Pasquale Cavallaro era già per me familiare, anche se, questa volta, mi faceva paura perché era comunista e perché voleva portare il comunismo in Calabria e poi in tutto il Meridione. Avevo quasi vent’anni, tutti vissuti sotto il fascismo ed ero imbottito di propaganda anticomunista. Perciò respirai sollevato, allorché dalla radio appresi che i moti di Caulonia erano stai soffocati grazie all’intervento dei carabinieri armati e che Cavallaro era stato arrestato. Passarono degli anni. Una quindicina. Nel frattempo io avevo tradito la pittura, con la quale avevo amoreggiato fin dall’età di sei anni, per innamorami della carta stampata. Scrivevo e scrivevo a fiumara, interessandomi di tutto, anche di critica letteraria; ed il mio nome era assai frequente sulle pagine dei cinque o sei quotidiani ai quali collaboravo. Frattanto avevo anche riveduto, sia pure con grande travaglio, le mie idee politiche e mi ero trovato uomo di sinistra. Cavallaro e tutti i comunisti e tutti i socialisti non mi facevano più paura, ma li sentivo fratelli nella speranza di un uomo migliore, dove non ci sarebbero stati più sfruttati e non ci sarebbe stata più gente abbandonata come quella di Cassari, dove ero andato a insegnare e a dirigere un centro di cultura popolare e in mezzo alla quale avevo maturato la mia crisi politica. Perciò scrissi la recensione che aveva entusiasmato Cavallaro; il quale, da quella volta, mi divenne grande amico. Quell’amicizia fu suggellata da una visita che io feci a Cavallaro in un nebbioso pomeriggio del marzo 1964, ventesimo anniversario dei moti di cui egli era stato il protagonista maggiore e il grande ispiratore. Ci intrattenemmo per un’oretta, in quella sua stanza disadorna, povera, ricca solo di libri. E quando tornai via, avevo il rimpianto di aver perduto l’occasione di un lungo discorso sulla “Repubblica”.  Un discorso che avrei senz’altro fatto se avessi avuto un registratore. Si sarebbe rinnovata la possibilità di un nuovo incontro con Cavallaro? Rimuginavo questo mio cruccio mentre, a piedi, arrancavo verso Caulonia Marina, dove, più tardi, sarebbe venuto l’amico con cui, sulla sua auto, sarei rientrato a casa. A quei tempi non era facile arrivare a Caulonia, poiché non avevo l’auto e per muovermi approfittavo di fortunate circostanze, che erano davvero rare. Ma quando, finalmente, risparmiando, misi le mani sul volante di una “500” mia… allora non ci fu strada della Calabria che non mi vedesse passare veloce e avido di conoscenze calabresi. E tornai a Caulonia. Era una stupenda giornata di fine maggio 1968 e con me c’era l’amico prof. Peppe Loiacono col suo nuovo registratore e cinque o sei nastri magnetici che a sera ci saremmo riportati indietro trasformati in un documento storico. Cavallaro parlò per ore e ore, calmo, senza bisogno di appunti (aveva la lingua sciolta e pensiero lucido così come il ricordo), a braccio, come si dice in gergo giornalistico. Si interrompeva, però, di tanto in tanto per riposarsi (ormai sfiorava i 75 anni) e riprendere fiato».
*giornalista

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