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«Gli occhi di Caterina, tra folk e anarchia»

di Valentino Santagati

Pubblicato il: 31/10/2019 – 12:43
«Gli occhi di Caterina, tra folk e anarchia»

L’ importante e atteso film Caterina di Francesco Corsi, emozionata e documentata immersione nella vicenda umana, artistica e intellettuale di Caterina Bueno, una delle figure più lucide e originali della cultura nazionale scomparsa troppo presto nel 2007, sarà in gara a Firenze, al Festival dei popoli che lo offrirà in prima visione al pubblico nella serata del prossimo otto novembre (qui tutte le informazioni sulla proiezione). La cantante e infaticabile ricercatrice, toscana, sì, ma al contempo cosmopolita e paladina irriducibile del libero pensiero, ebbe un legame speciale con la Calabria, nel cui territorio non mancò di condurre indagini antropologiche e musicali (in piccola parte confluite nell’archivio dell’Istituto Centrale per i beni sonori e audiovisivi) e di dedicarsi alla costruzione di intensi rapporti umani. Per ricordarla, in vista dell’evento che la riguarda, pubblichiamo un testo del 1997 di Valentino Santagati, estrapolato dalla pubblicazione Le parole non si capiscono in corso di stampa presso l’editore Squilibri.
Se i ritratti che le fece il padre Xavier dicono il vero Caterina Bueno i suoi occhi spalancati meravigliati e curiosi doveva averli già da bambina. Allora Albina, la tata mugellana che l’accudiva, forse immaginava che quella piccola figlia di artisti stranieri stabilitisi a San Domenico di Fiesole avrebbe avuto a sua volta un futuro da artista, ma certo non poteva prevedere che sarebbe diventata la più famosa interprete di canzoni tradizionali toscane come quelle che lei stessa sapeva cantare molto bene. Eppure la piccola Caterina, che fino a ventun anni fu di nazionalità spagnola, si preoccupò in qualche maniera di preannunciare il suo destino cominciando subito a fornire consistenti anticipazioni sui suoi interessi e sulle sue passioni.
Alla madre Julia che le insegnava canzoncine popolari francesi fece capire inequivocabilmente di preferire La storia del grillo e la formica e La donnina che semina il grano apprese all’asilo da suoi coetanei figli di contadini. Questi ultimi le trasmisero il toscano piuttosto spaccato che prese ad utilizzare in casa con una disinvoltura stupefacente anche per i poliglotti e navigati coniugi Bueno.
La volta che si sforzò di imitare in famiglia l’esibizione di un barrocciaio ben dotato di fantasia e abilità linguistica, capace per mezz’ora di fila di improvvisare moccoli su moccoli, fornì una prima convincente prova del suo spirito di osservazione scientifica (qualità indispensabile per una ricercatrice) e delle sue virtù di riesecutrice.
Molti anni dopo questo episodio, nel corso di numerose interviste, Caterina Bueno ha parlato diffusamente dei vecchi contadini della sua infanzia, del fascino che emanavano con i loro bellissimi gesti antichi e le loro voci musicali, con il loro nobile parlare costellato di espressioni memorabili come inghirlando di terriccio l’ulivo, là dove la strada muore e promuove un sentiero.
Si deve osservare che i dizionari della canzone italiana e le enciclopedie della canzone popolare, se danno conto del rigore con cui Caterina ha riproposto i canti da lei stessa raccolti, se sottolineano la serietà e la scioltezza del suo “ricalco degli stili vocali originari”, si dimenticano per l’appunto di dare rilievo al fatto che ebbe con il cosiddetto mondo contadino, a differenza della maggior parte degli operatori del folk-revival, rapporti non superficiali a cominciare dalla più tenera età.
Quando poi crebbe, trasformandosi in una donna bellissima con una voce capace di esprimere tutte le sfumature dell’ironia e del dolore, si mise a girare per le campagne e i paesi toscani con una cinquecento scassata e un registratore tedesco, meritandosi l’appellativo “Caterina raccattacanzoni”. Ma la sterminata quantità di bobine che ha accumulato non raccoglie solamente canzoni: I miei nastri sono molto parlati – disse una volta a una giornalista dell’Europeo – perché capita spesso che la canzone diventi un pretesto per discutere di medicina popolare, di magia, di anarchia, di lotte sindacali; e son sempre interviste molto interessanti, mezzi informativi completi, formidabili.
Nutrendosi dei saperi e delle esperienze delle persone che ha contattato Caterina è diventata effettivamente, come qualcuno ha scritto, “una sorta di compendio vivente della storia del folk toscano e non solo”. Ancora oggi, per fare solo un esempio abbastanza recente, mentre pigri e sprovveduti neofiti dichiarano ormai impossibile la ricerca sul campo, lei scopre che il poeta/improvvisatore maremmano Lio Banchi conosce un “maggio” politico del ’46 intenso e struggente ed è felice come una piccola Caterina.
Caterina sa stare in silenzio ma può essere molto loquace: scanzonata e seria, allegra e malinconica, è un fiume in piena quando, spalancando gli occhi ed elargendo sorrisi, racconta storie di anarchici e di uomini della leggera, vicende di emigrati e di carbonai ed avventure di suonatori girovaghi. Chi la conosce sa che è abilissima a trovare un nesso tra i fatti più disparati ed è sempre pronto a seguirla in qualche ardito volo pindarico. Anche se migliaia di volte, con orgoglio e pudore, ha descritto i suoi rapporti con la gente che le ha insegnato le canzoni continua a commuoversi se ricorda la Paradisa, l’Armida, la Maria Ringressi e tutti gli altri. La Paradisa la conobbe novantacinquenne e molto vitale, custodiva un repertorio articolato ma da anni non più eseguito; l’Armida, il cui sguardo era quello di chi ha vissuto troppo per meravigliarsi di niente, aveva la bocca senza denti e la memoria piena di canzoni; Maria Ringressi le regalò, con un’arte e un talento drammatico eccezionali, più di trecento motivi senza fermarsi mai, senza un calo di memoria, senza mai esitare.
Il tempo si è incaricato di dimostrare l’unicità di Caterina: quelli che sembravano suoi compagni di viaggio, constatate ad un certo punto le declinanti fortune della canzone popolare, hanno preso strade diverse o si sono insediati su comode cattedre dalle quali compilano accurati necrologi della tradizione e mostrano di preferire i rapporti con gli archivi musicali a quelli con gli uomini e le donne. Lei invece, imperterrita e sola (prima che riprendessero vigore le spudorate riduzioni a canzonetta della musica tradizionale), ha continuato senza alcuna promozione a fare vivificanti spettacoli, ricchi di parole e narrazioni che stimolano riflessioni collettive sulla cultura, sul vissuto e sulle gatte da pelare di un popolo vessato e vociante. Contemporaneamente non ha smesso di scoprire e valorizzare ottimi musicisti (tutti sanno del cantautore De Gregori, ma l’ elenco sarebbe lungo e comprenderebbe Alberto Balia, Franco Pacini, Luciano Francisci, Maurizio Geri, Enrico Frongia, ecc.), e ha continuato a collaborare e a confrontarsi con strumentisti di formazione classica (tra gli altri Daniele Andriola, Catinka Cassola, Flavio Cucchi, Andrea Degl’Innocenti, Antonio De Rose, la liutaia Jamie Marie Lazzara, Pietro Vismara).
All’epoca in cui la conobbi mi colpirono la sua abilità di cuoca e la solidarietà che offriva agli innumerevoli disgraziati che ogni giorno passavano da casa sua, bisognosi di aiuto, ciascuno con la propria esigenza: giovani rovinati da trattamenti psichiatrici potevano sproloquiare senza paura, musicisti talentuosi e frustrati trovavano una collega che anziché competere incoraggiava e rassicurava, artisti di strada polverosi e macilenti riuscivano a placare i morsi della fame. Ho sentito una volta l’ esuberante e divertente poeta Altamante Logli (scomparso in questi giorni all’età di ottantasei anni) cantare in ottava rima la “grandezza senza presunzione di Caterina” davanti a un pubblico che pure la conosceva bene. Concetti analoghi ha espresso in forma scritta e senza improvvisare Simone Fortuna, un giornalista di Repubblica, nell’articolo in cui l’ha ringraziata per la grande lezione morale e professionale impartita agli “impegnati” di ieri e di oggi. A sua volta Andrea Mugnai, dalle colonne di un giornale favorevole alla partenza delle missioni di pace e al ritorno degli artefici della guerra ma fondato da Antonio Gramsci, scrisse che la Bueno ci riporta a come eravamo o meglio a come avremmo voluto essere. Ha mantenuto intatta rabbia e dolore, e voglia di ridere e ridersi addosso senza ritegno. Insomma poca voglia di prendersi sul serio prendendo sul serio le cose fondamentali.
Bontà sua, certo, ma soprattutto bontà di Caterina.

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