MILANO «Porteremo la banda ultralarga nelle case degli italiani, nelle fabbriche, nelle aziende. Gestiremo e faremo la manutenzione di questa infrastruttura e metteremo questa capacità a disposizione degli operatori». In molti ricorderanno questa conferenza stampa di Matteo Renzi a Palazzo Chigi dello scorso aprile 2016 per la presentazione del grande progetto della “Bul”, la rete pubblica di tlc a banda ultralarga che si poneva come obiettivo, sempre nelle parole dell’allora Premier: «Di arrivare entro il 2020 ad una copertura al 100% a 30 Mbps e di arrivare al 50% con un abbonamento a 100 Mbps». Così non è stato – se non in piccola parte – come riporta un articolo del Sole24Ore dove si sottolinea, ad oggi, il lento e stagnante avanzamento di un progetto che Nicola De Michelis, direttore generale della Dg Regio alla Commissione europea oggi definisce «con fortissime fragilità». «Stiamo marcando stretto Infratel – ha assicurato Antonio Caponetto, dg dell’Agenzia per la coesione – perché spenda le risorse prelevate dai programmi regionali».
IL PROGETTO Il 3 Marzo 2015 il Governo italiano ha approvato la “Strategia Italiana per la Banda Ultralarga”,sostenendola tramite fondi nazionali (FSC) e fondi comunitari (FESR e FEASR, assegnati dalle regioni al Ministero dello Sviluppo Economico in base ad un accordo quadro Stato-Regioni). Nel 2017 era stato presentato un bando per la realizzazione della rete che sarebbe stata data in concessione ventennale salvo rimanere proprietà pubblica, quindi – si legge sempre nella “Strategia” – «messa a disposizione di tutti gli operatori che vorranno attivare servizi verso cittadini ed imprese». Aggiudicataria era stata Open Fiber, società controllata alla pari da Enel e Cdp. L’obiettivo era quello di «ridurre il gap infrastrutturale» tra le aree del nostro territorio rispetto a quelle dei resto d’Europa. La strategia partiva da una prima fase attuativa «riguardante le aree a fallimento di mercato (aree bianche) presenti sull’intero territorio». Mancano ormai pochi mesi al 2020, data preannunciata dallo stesso Renzi come quella in cui il progetto sarebbe stato ultimato, ma la situazione appare tragica.
Sempre il Sole24Ore riprende i dati pubblicati da Infratel (la Spa a cui il ministero dello Sviluppo, che la controlla attraverso Invitalia, ha affidato la missione di realizzare il progetto) dove si evidenzia che – al 4 novembre appena trascorso – «solo in cinque comuni i lavori sono terminati, cioè la rete è collaudata e operativa». Di questi, 3 sono in Umbria, uno in Lombardia e uno in Friuli.
Solo solo cinque, a fronte dei 7.450 compresi in due dei tre progetti “Bul”. Il terzo di questi progetti è invece quello che riguarda Calabria, Puglia e Sardegna, assegnato nel 2018 (ai sensi della “Procedura ristretta, ex articolo 61 del d.lgs. n. 50/2016, relativa alla procedura di gara indetta da Infratel Italia S.p.A. per l’affidamento di una concessione di costruzione e gestione di una infrastruttura passiva a banda ultralarga nelle aree bianche del territorio delle Regioni: Calabria, Puglia e Sardegna”) e ancora nemmeno attivato.
La stragegia in questione, quindi la progettazione, non si riferisce all’intero territorio, bensì alle così dette “aree bianche”, ovvero le aree a fallimento di mercato che includono circa il 24,6% della popolazione italiana ed il 26% delle Ui. L’intervento diretto – in linea con l’Agenda Digitale Europea e italiana – è volto quindi a superare il digital divide tra le aree a minor densità demografica e più disagiate d’Italia e le aree più dinamiche da un punto di vista concorrenziale.
CALABRIA FANALINO DI CODA Sul portale di Telecomitalia dedicato al “Progetto Bul Calabria” emerge che alla realizzazione della «rete di nuova generazione in fibra ottica» sono interessati 223 Comuni della Regione che aveva stipulato l’accordo, lo scorso 2016 «per contribuire al raggiungimento degli obiettivi dell’Agenda Digitale Europea» (ne avevamo scritto qui). Nella nostra Regione, il progetto prevede un finanziamento pubblico di circa 63,5 milioni di euro grazie all’utilizzo dei fondi europei Fesr, a cui si aggiungono 36,6 milioni di euro di investimento da parte della stessa Telecom Italia. Inoltre si sottolinea che «nei comuni interessati dal progetto saranno raggiunte circa 800 mila unità immobiliari con connessioni fino a 30 Megabit al secondo, e più di 980 edifici, tra sedi della Pubblica Amministrazione centrale e locale e delle Forze Armate, istituti scolastici, uffici della Pubblica Istruzione, ospedali e strutture sanitarie. La disponibilità di questa moderna infrastruttura consentirà ai privati e alla Pubblica Amministrazione di usufruire e sviluppare nuovi servizi, favorendo la migrazione verso un modello di digital life in grado di migliorare la qualità della vita dei cittadini e di aumentare la produttività delle imprese». Ad oggi, uno scenario fantascientifico.
Il rischio per le Regioni, alla scadenza della data prevista per la fine del progetto è quello di «incorrere nel disimpegno automatico, cioè la perdita dei fondi comunitari. – come ha spiegato Antonio Caponetto – Se non si procede con i lavori e dunque con la spesa, le Regioni non possono rendicontare alla Commissione e perdono i soldi». Altro rischio nel quale sono già incorse alcune regioni in relazione ai piani già attivi, è che l’area designata non venga più riconosciuta come “area bianca” venendo così esclusa dal piano.
I vertici di Open Fiber fanno sapere che «conti alla mano c’è un’accelerazione dopo i ritardi iniziali». Infratel, però, sottolinea la «consapevolezza che i lavori dovrebbero essere completati entro il 2020 ma è difficile pensare che questo avvenga». (f.d.)
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