di Roberto De Santo
Una catena di responsabilità che si sommano e fanno sì che il Mezzogiorno, la Calabria non riescano a crescere. Una sorta di diritto negato ad uscire dal tunnel della stagnazione e del ritardo socio-economico che viene inflitto alle regioni del Sud. Determinando un incremento sempre maggiore del divario tra le due aree del Paese. Nella disamina sui temi dello sviluppo mancato del Sud che il direttore della Svimez, Luca Bianchi, ha affidato al Corriere della Calabria, emergono le ragioni forse più profonde del perché la “questione meridionale” non si affronti con una visione complessiva, strategie compiute e risorse giuste. Ma quello che colpisce di più è quel “velo di silenzio” che in fondo si preferisce stendere sul tema dello sviluppo del meridione nell’agenda delle politiche economiche del Paese. Con la complicità di tutti. Ad iniziare dalla classe dirigente locale.
Esiste una sperequazione di fondi diretti al Sud o manca una strategia per il rilancio?
«C’è una doppia analisi da fare sulla parte delle risorse destinate al Mezzogiorno. Da un lato abbiamo il Mezzogiorno che è fortemente penalizzato sulle risorse ordinarie. Per capirci, le risorse ordinarie, vuol dire soprattutto somme in conto capitale ed investimenti per realizzare ospedali, scuole, strade e ferrovie, cioè dove la mano pubblica dovrebbe garantire gli stessi livelli di servizio tra nord e sud. Qui abbiamo una spesa del Mezzogiorno che è molto inferiore al peso della sua popolazione: siamo circa a 22-23 per cento di spesa nazionale rispetto alla popolazione che nel Sud si aggira a circa il 33%. Quindi mancano quasi 4 miliardi all’anno di spesa ordinaria. Invece sul fronte della spesa straordinaria, cioè la spesa aggiuntiva dedicata al Mezzogiorno, abbiamo un inaccettabile ritardo. È questo ritardo riguarda prevalentemente le risorse aggiuntive a carattere nazionale. Sul fondo sviluppo e coesione 2014-2020, dopo quasi 5 anni siamo a poco più del 3% di spesa delle risorse. Qui c’è un mix di responsabilità nazionali e locali perché sia i ministeri che le regioni sono molto lente nello spendere le risorse mentre i Comuni hanno vincoli di bilancio che rendono difficile utilizzare quei fondi. Ed ugualmente abbiamo la stessa situazione sui fondi europei dove tra alti e bassi si registra una lentezza nella spesa. La Calabria solo negli ultimi due anni ha avuto una buona accelerazione della capacità di spesa, ma resta comunque su piani più bassi a livello europeo. Quindi alla mancanza di una strategia nazionale per il Sud si somma una carenza enorme della pubblica amministrazione locale e centrale».
Il quadro socio-economico della nostra regione che emerge dal rapporto è a dir poco devastante. La Calabria sembra aver intrapreso un percorso che la allontana sempre più dal resto del Paese. Addirittura indietreggia anche rispetto ad altre regione del Sud. Sono cause solo storiche o c’è dell’altro?
«Io non mi soffermerei solo al dato congiunturale che emerge anno per anno perché se è vero che nel 2018 la Calabria è risultata la peggiore regione italiana per il Pil – con un indice del -0,2% – e che la pone come unica già in recessione, viene però da un anno precedente in cui risultava tra le più dinamiche. Quindi se vediamo in media l’ultimo quadriennio la Calabria è sostanzialmente allineata con le altre regioni del Mezzogiorno. Dunque non occorre fermarsi al dato del singolo anno anche perché essendo una regione così fragile soprattutto dal punto di vista industriale quel dato è molto legato a fattori congiunturali. Anche di un singolo comparto. Nel 2018, ad esempio per la Calabria – in cui il peso specifico dell’agricoltura è determinate per l’economia regionale – ha inciso decisamente l’andamento dell’olivicoltura. Un comparto che è a forte impatto sui dati congiunturali della regione e che per l’annata negativa che ha registrato il settore nel corso del 2018, ha sostanzialmente azzerato il buon andamento dell’anno precedente condizionando di fatto il dato finale. Il vero tema che viene fuori dall’ultima rilevazione è che sostanzialmente in un Mezzogiorno che vive una condizione di ritardo rispetto al resto del Paese e che vede incrementare il divario rispetto al centro-nord, ebbene all’interno di questo Mezzogiorno la Calabria – che era una delle regioni più fragili – perde ancora posizioni. Quindi questo vuol dire che le zone di disuguaglianze crescono pian piano e che anche le disuguaglianze tra i più deboli hanno avuto una tendenza al peggioramento. E questo richiama ancora una volta il tema dell’utilizzo coretto delle risorse disponibili tra cui quelle provenienti dai fondi europei. Ma non è tanto e soltanto un problema di lentezza della spesa. Quello che a noi sembra emergere è l’assenza di una strategia chiara su quale si pensa debba essere costruito il progetto di crescita della regione Calabria cioè quali sono gli asset principali di sviluppo su cui si vuole puntare. Su questo aspetto va riaperto un ragionamento nazionale perché abbiamo piccoli e grandi casi di esperienze positive che sono presenti in questa regione. Vedasi Hitachi. E poi ci sono diverse startup interessanti decollate dall’Università della Calabria. Iniziative intelligenti con potenzialità di crescita. Però manca un disegno strutturale senza contare la serie di occasioni mancate. Abbiamo la straordinaria occasione persa di Gioia Tauro su cui non si può non riflettere su quello che è mancato. Perché non c’è un’attenzione così forte su questo tema, del perché non si colgono quelle condizioni positive che ci sono in questo contesto».
Lei parla dunque di qualcosa che non ha funzionato. Quale sistema di regole dovrebbe essere messo in piedi per garantire lo sviluppo del Sud?
«Io non parlerei tanto di regole. Il problema su questo fronte riguarda tutti ed è legato al sistema dei controlli per evitare la corruzione e le infiltrazioni della criminalità organizzata. Ed è una grande questione nazionale, non è solo una questione meridionale. Perché fare una grande opera è ormai divenuto impossibile al Nord come al Sud. L’esperienza degli ultimi anni lo dimostra. Certamente c’è un problema specifico nelle regioni meridionali che dovendo gestire molte risorse per investimenti e una quantità più forte di somme per l’attuazione sia di politiche nazionali sia di politiche regionali per la coesione avrebbe bisogno di contare su alcuni punti di forza. A partire da una strategia complessiva di sviluppo e poi della certezza che molti degli interventi non si esauriscano a scala regionale. Quindi occorre fare una seria riflessione su come il regionalismo viene attuato in questo Paese ed in particolare nel Mezzogiorno. Sul tema delle infrastrutture è chiaro a tutti che come la Salerno-Reggio Calabria – finalmente completata – non era un tema della Calabria, ugualmente Gioia Tauro non è un tema che riguarda solo la regione Calabria ma è, come minimo, una questione nazionale. Questo vuol dire che su alcuni grandi progetti infrastrutturali – penso a quelli per completare il sistema idrico così come quello dei rifiuti – la dimensione regionale risulta inadeguata. Occorre quindi fare una strategia e programmare l’attuazione su scala, diciamo multiregionale, con dimensioni dunque più ampie di quella regionale. Ultimo tema è la debolezza della pubblica amministrazione. Nel corso degli ultimi dieci anni per attuare diciamo “politiche di risanamento finanziario” abbiamo anche indebolito una già debole pubblica amministrazione che ora è costruita prevalentemente da persone con età media molto elevata. In cui non entrano più giovani che peraltro hanno un livello di preparazione su materie che neanche c’erano 20 anni fa e che adesso sarebbero necessarie nella pubblica amministrazione. Quindi il tema della riqualificazione della Pubblica amministrazione è un tema che riguarda tutto il Paese. Ma dove dobbiamo realizzare più investimenti, dove c’è più bisogno ancora di una mano pubblica intelligente, questo tema diventa fondamentale da attuare e costituisce un vincolo enorme per adottare politiche di crescita del territorio».
Ma c’è anche un’emergenza demografica e un fenomeno d’emigrazione che praticamente non si è mai arrestato e che colpisce soprattutto la Calabria. Quali sono le misure utili per cercare quanto meno di rallentare entrambi i fenomeni?
«È un tema veramente preoccupante sia per la velocità con cui sono mutati i comportamenti demografici sia per l’acuirsi del fenomeno dell’esodo dalla regione. La Calabria era tra le regioni più giovane d’Europa, ma nel giro di pochi anni ha registrato un processo di invecchiamento rapidissimo. Le previsioni dell’Istat, inoltre, identificano la Calabria assieme ad altre regioni del Mezzogiorno come un’area di forte spopolamento e questo riguarda sia i comportamenti naturali – cioè si fanno molti meno figli – sia un fenomeno migratorio crescente che non viene compensato, a differenza del Centro-nord, dall’ingresso di stranieri. L’attrazione d’immigrazione da fuori Italia rappresenta il vero valore aggiunto del Centro-nord. Il Sud non riesce ad attrarre immigrati dall’estero ed espelle popolazione spesso altamente qualificata. I dati dell’Istat ci dicono che dal Mezzogiorno sono andati via negli ultimi quindici anni circa due milioni di persone e solo 800 mila sono tornate. La Calabria ha avuto una perdita netta di 122.000 persone che vuol dire un pezzo del futuro della Calabria se ne andato via da qui. Da dove ripartire? Senz’altro da politiche di potenziamento dei servizi sul territorio. Il tema degli asili nido, ad esempio. È una vergogna che una regione come questa non riesca ad offrire alle proprie mamme un livello neanche minimo di servizi per l’infanzia così come abbia difficoltà a garantire altri servizi essenziali alla cittadinanza. E dall’altro c’è il tema dello sviluppo quindi la relazione di disoccupazione e che diventa fondamentale per spezzare questo circolo vizioso. Con questi tassi d’occupazione che sono i più bassi d’Europa per le donne è chiaro che si fanno meno figli perché inevitabilmente hai difficoltà ad offrire una prospettiva diciamo dignitosa».
La lettura del rapporto ogni anno stimola diverse riflessioni che dovrebbero divenire patrimonio dei decisori politici. In questo senso ha notato che qualcosa sia stato recepito ed attuato?
«Guardi, in realtà sì. Nel senso che alcune delle azioni messe in campo negli ultimi anni in Italia partono da proposte della Svimez. Penso alla clausola del 34% cioè la destinazione di almeno 34% della spesa ordinaria destinata alla popolazione del Mezzogiorno è una proposta Svimez, così come le Zone economiche speciali. Ma poi qualcosa si inceppa. Faccio un esempio che rende il concetto di quello che non va nel nostro Paese. Le Zone economiche speciali le abbiamo indicato come strumento utile per offrire una prospettiva interessante per il Mezzogiorno perché grazie a queste si possono localizzare in un’area investimenti interni e attrarre investimenti legati alla portualità che può costituire un volano di sviluppo per il territorio. Dunque da qui parte la proposta, la si recepisce, quindi si fa la norma che la introduce. E poi succede che ad oltre due anni dal varo della norma, le Zone economiche speciali di fatto ancora non esistono. La regione Calabria, che è stata una delle più rapide nell’approvare una Zona economica speciale, ha mandato tutte le carte per renderla operativa, ma di fatto ancora è ferma, in attesa degli ultimi decreti attuativi. Così di fatto non c’è, non esiste. Se un’impresa intende investire nella Zona economica speciale di Gioia Tauro non sa quali siano le semplificazioni amministrative che le verranno garantite, né gli incentivi, non ha un punto di riferimento su quali saranno i vantaggi a lavorare in quest’area. Inoltre non abbiamo fatto promozione all’estero di queste aree, come zone di attrazione. Questo è indice del problema italiano che non è tanto fare riforme, introdurre nuovi strumenti ma quello di attuare quelle novità, seguirne l’attuazione con il “cacciavite”. Che vuol dire rimettersi in moto affinché quello strumento funzioni, avere cioè la pazienza di attuarlo soprattutto nel Mezzogiorno. Ma quello che mi stupisce di più è il perché le classi dirigenti meridionali, le Regioni non chiedano con forza l’attuazione di alcuni strumenti nazionali che pur esistono per far risollevare il Sud. È come ci fosse una sorta di senso di colpa generale. Lo Stato centrale si sente in colpa perché non dà abbastanza risorse alle regioni del Mezzogiorno, le classi dirigenti locali si sentono in colpa perché non sono in grado di utilizzare quei soldi che gli vengono dati. Questo senso di colpa complessivo fa sì che il Mezzogiorno diventi un tema che se uno riesce a non parlarne sono tutti più contenti. Ma noi come Svimez abbiamo la responsabilità e la ragione sociale ogni anno di puntare i piedi sulla straordinaria rilevanza di questo tema». (r.desanto@corrierecal.it)
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