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I soldi arrivano dopo anni, così la burocrazia “aiuta” i centri antiviolenza

In Calabria, come in molte altre regioni, i fondi previsti dal “Piano nazionale antiviolenza” arrivano alle strutture accreditati con ritardi che rendono insostenibili le attività. Così 170mila eur…

Pubblicato il: 27/11/2019 – 7:17
I soldi arrivano dopo anni, così la burocrazia “aiuta” i centri antiviolenza

di Michele Presta
COSENZA Consumata la retorica, il giorno dopo le celebrazioni contro la violenza di genere, il sommerso ritorna in superficie. I meccanismi della burocrazia sono così poco oleati che mantenere in vita un centro antiviolenza è una delle imprese più ardue su tutto il suolo italico. I soldi stanziati dal Governo ogni anno, passano dalle Regioni e prima che gli uffici competenti riescano a smistarli per le strutture accreditate capita che si celebri un nuovo “25 novembre”. Semplificato: i finanziamenti dovuti per legge, arrivano con anni di ritardo. In Calabria, per esempio, si rischiano di perdere 170mila euro stanziati nel 2017 (il 33% dell’importo complessivo) che la legge ha previsto per sostenere la nascita di nuovi centri. In quell’anno su tutto l’arco regionale non sono nati né centri antiviolenza né case rifugio. La Regione Calabria ha chiesto di poter ripartire i soldi tra le strutture presenti ma da Roma ancora non è arrivata nessuna risposta. Se entro il 31 dicembre il Governo non darà un papere favorevole agli uffici regionali i soldi ritorneranno indietro senza essere spesi e senza aver sostenuto nessuna delle realtà presenti sul territorio calabrese. Nel frattempo che la situazione si sblocchi, i gestori delle strutture antiviolenza sono in attesa che vengano liquidate le somme previste per il 2018 e si stanno predisponendo tutti gli incartamenti per poter fare richiesta dei fondi previsti dal “Piano Nazionale Antiviolenza” nel 2019.
LE BOLLETTE E IL VOLONTARIATO Gli appelli dei centri sul lastrico e pronti a chiudere battenti spesso sono degli eco in un deserto. Chi bussa alle porte o chiama il “telefono rosa”, il più delle volte si ritrova di fronte operatrici volontarie che provano a mantenere anche le redini dell’intera struttura. Al netto di un servizio fatto con spirito di gratuità, un centro antiviolenza in una città come Cosenza si stima abbia bisogno dai 50 ai 60mila euro annui. Soldi impiegati solo per far quadrare i conti dei servizi essenziali di gestione e manutenzione del centro e attività di prevenzione. Il supporto legale, il supporto psicologico così come eventuali servizi medici, nella maggior parte dei casi sono offerti tutti gratuitamente da professionisti volontari. Così avviene nel centro antiviolenza “Roberta Lanzino”, a Cosenza dove per evitare che le giovani operatrici formate lascino il centro perché prive di uno stipendio, si è alla continua ricerca di bandi di progetto ai quali poter partecipare. «Adesso cercheremo di intercettare la quota che ci spreterebbe di un finanziamento regionale di 400mila euro – la una delle volontarie del centro, Antonella Veltri -. Ma comunque per come è organizzato l’intero sistema rischia prima o poi di fallire». Meglio non va per le case rifugio. Per quelle servirebbero almeno 100mila euro. In Calabria ne sono rimaste solo tre, una a Catanzaro, una a Crotone e una a Reggio Calabria. «A Cosenza ne avevamo una ma è stata chiusa, sarebbe inutile riprendere questo progetto, se poi non saremmo in grado di dare un aiuto concreto alle donne in difficoltà perché non ci arriverebbero i finanziamenti».
NELLE MAGLIE DELLA RETE Se i riflettori puntati sull’antiviolenza durano solo un giorno, la questione (irrisolta) delle sinergie tra forze rimane sempre di attualità. I numeri dicono che ogni 15 minuti in Italia si registra un episodio di stalking o maltrattamenti. E sono 96, dal primo gennaio 2019, le donne uccise da fidanzati, mariti, compagni. A Cosenza due sono le stanze d’ascolto messe a disposizione dai carabinieri e dalla polizia di stato ma tra gli operatrici del territorio non si riesce a fare rete. «Proprio il 25 novembre – aggiunge Antonella Veltri che è anche vice presidente nazionale della rete Di.Re. – ho avuto modo di leggere una testimonianza di una donna vittima di violenza che sta per finire il suo percorso, nella quale era messo nero su bianco quanto sia difficile rivolgersi spontaneamente alle forze dell’ordine. Quello è già un passaggio successivo, una tappa di un cammino difficilissimo. È assurdo che non ci si riesca ad organizzare per lavorare insieme». (m.presta@corrierecal.it)

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