di Alessia Truzzolillo
LAMEZIA TERME Sono stati dei killer, sono stati educati a difendere l’onorabilità della famiglia ad ogni costa e con ogni mezzo, anche facendosi coinvolgere nel tentato omicidio delle proprie madri. Di ragazzi cresciuti in famiglie mafiose e finiti davanti al giudice Roberto Di Bella, presidente del Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria, ne sono passati tanti. Non si poteva più assistere inermi al potere e al condizionamento che le famiglie di mafia esercitavano sui giovani e giovanissimi. Lo racconta lo stesso Di Bella, collegato in videoconferenza, durante l’incontro dal titolo “Il ruolo della donna nella criminalità organizzata” che il Comitato pari opportunità del Foro di Lamezia, l’Ordine degli avvocati hanno organizzato in collaborazione con il Chiostro Caffè letterario del complesso San Domenico. «Oggi si celebrano i processi ai figli di coloro che vennero arrestati negli anni ’90 – dice il giudice –. Perché il potere si eredita». Oggi esiste anche la possibilità di allontanare dalle famiglie i ragazzi che vivono in contesti mafiosi, di mandarli fuori regione, permettergli di conoscere nuovi ambienti e nuove realtà, in strutture adeguate o in famiglie. «Lo scopo è che questi ragazzi conoscano principi antitetici a quelli della culta mafiosa – spiega Di Bella – Il diritto di crescere all’interno della propria famiglia è un diritto fondamentale ma non assoluto. Un ragazzo deve avere la possibilità di imparare che esiste parità di diritti tra uomo e donna. Che il matrimonio non è un patto combinato tra famiglie ma è fatto di sentimenti. E il carcere non è una medaglia da appuntarsi sul petto. L’allontanamento dalla Calabria serve ai ragazzi a sperimentare orizzonti diversi». Il progetto portato avanti da Di Bella non è stato esente da forti critiche. Si è perlato di vere e proprie confische di figli. «È un provvedimento temporaneo che ha fine con il compimento del 18esimo anno di età, inoltre cerchiamo di coinvolgere anche le famiglie. Sono provvedimenti a favore della categoria più debole, i minori», spiega il magistrato. «I ragazzi che ho incontrato non ci serbano rancore, nonostante tutto – prosegue il presidente del Tribunale dei minori –. Alcuni ci chiedono come fare a restare fuori oltre la fine del progetto. Altri vengono in visita e ci presentano mogli e figli. C’è da capire che la ‘ndrangheta crea sofferenza fuori ma soprattutto all’interno delle famiglie. Le donne sono stanche delle sofferenze e privazioni patite. Capita che si presentino e ci chiedano di mandare via i figli dai contesti mafiosi. Altre hanno chiesto di allontanarsi coi propri ragazzi. In alcuni casi questo è stato possibile grazie al progetto “Liberi di scegliere” e alla rete di Libera». Il Tribunale dei minori di Reggio Calabria – tiene a sottolineare il giudice – da terra di frontiera è diventato un punto di riferimento. C’è ancora qualche difficoltà nella fase esecutiva del progetto, soprattutto quando si tratta di trovare un lavoro alle famiglie che vanno via «ma Libera sta dando un grande aiuto». Al convegno hanno partecipato Dina Marasco presidente dell’ordine degli avvocati del foro di Lamezia, e Luana Loscanna, giudice della sezione penale, Angela Davoli, presidente del Comitato pari opportunità del foro di Lamezia, Mariannina Scaramuzzino (consigliere comitato pari opportunità del foro di Lamezia). Presente anche il neo sindaco Paolo Mascaro che ha parlato della necessità di una rivoluzione culturale.
PREGIUDIZI GIURIDICI SULLE DONNE DI MAFIA Nel corso dell’incontro si è parlato del ruolo della donna all’interno dei contesti mafiosi e di come questo ruolo, in termini di responsabilità penale, venga letto nelle sentenze dei tribunali. Da un lato le donne sono ancora oggi – ha affermato Gabriella Reillo, presidente Corte di Assise d’Appello di Catanzaro – «merce di scambio utilizzata per rafforzare rapporti o sedare faide e contrasti». Allo stesso tempo alle donne vengono affidati ruoli importanti soprattutto quando i mariti si trovano in carcere, ma non solo. Luana Loscanna ha raccontato di una donna in Puglia, un cantante, che, con il beneplacito del fratello, usava i propri spostamenti per lavoro per estendere anche all’estero il traffico di droga della famiglia. Eppure ancora oggi, nei processi spesso «si svilisce il ruolo della donna», dice la Reillo. Anche la cultura giuridica ha dei pregiudizi essendo specchio della società. La donna, in quanto tale, ha un ruolo subalterno, non ha autonoma determinazione in quello che fa. Eppure il ruolo della donna non è mai stato del tutto passivo, neanche negli anni passati. La donna è la cultrice del tempo che passa, la vestale del senso dell’attesa e della vendetta. Un esempio lo porta la Reillo su quanto accaduto a Drapia, in provincia di Vibo Valentia, quando venne ucciso il marito di una donna di mafia. Lei conservò la giacca crivellata del marito, poi istruì suo figlio alla vendetta. Quando il ragazzo fu pronto gli fece indossare la giacca del padre e con quella il giovane sparò sull’assassino del genitore. Eppure a Palmi – racconta Loscanna – tre donne di mafia sono state assolte in un processo contro il clan Mammoliti, visto il ruolo subalterno della donna nel contesto delle associazioni criminali. Giudizio che la Corte di Cassazione ha poi decisamente ribaltato. Il pregiudizio, viene fuori dalla discussione, persiste a fasi alterne ancora oggi nei processi. «Processi – non riesce a trattenere la Reillo – che oggi non sono tali se non sono maxi. Sennò non si va abbastanza sui media». (a.truzzolillo@corrierecal.it)
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