di Michele Presta
COSENZA Mattia Pulicanò quando si consumò il delitto di Benito Chiodo e Aldo Tucci aveva appena 13 anni e collabora con la giustizia da quando ne aveva 27. Diverse condanne per spaccio di sostanze stupefacenti ma «mai nessuna per associazione mafiosa», tiene a sottolineare. È stato citato dal pubblico ministero Camillo Falvo – recentemente nominato procuratore di Vibo – come testimone nel corso del processo che si sta celebrando nella Corte d’Assise di Cosenza, per chiarire se ci siano altri responsabili per l’omicidio di Benito Chiodo e Aldo Tucci, avvenuto nel novembre del 2000. Nessuna condanna, però Pulicanò era tra gli affiliati della cosca Lanzino-Ruà. «Con Patitucci avevo un rapporto intimo», dice. «Mi occupavo dello spaccio di stupefacenti nella città di Montalto e nelle zone limitrofe». Perché la Dda tira in ballo Pulicanò? Per il suo rapporto con Celestino Bevilacqua. “Ciccio” – insieme ad Antonio Abbruzzese alias “Strusciatappine”, Fiore Abbruzzese detto “Ninuzzo”, Luigi Berlingieri noto come “Occhi di ghiaccio” e Saverio Madio – dovrà rispondere dell’accusa di duplice omicidio. «Celestino Bevilacqua si avvicinò al nostro gruppo (apparteneva gli Zingari, ndr) lamentando di essere poco considerato nonostante quello che aveva fatto». Secondo la testimonianza del collaboratore di giustizia l’imputato avrebbe rivendicato un ruolo da protagonista nell’agguato di via Popilia. Partecipare al gruppo di fuoco per conquistare i galloni e crescere all’interno del clan, potrebbe essere stata questa la strategia di Bevilacqua, ma poi le cose non sono andate così. «Era in un periodo di freddo con Antonio Abbruzzese – aggiunge Pulicanò –. Per questo è capitato che gli vendessi della sostanza stupefacente. Con me di tanto in tanto si sfogava, mi ha raccontato dell’omicidio, ma allo stesso tempo lamentava una scarsa considerazione». Al collaboratore di giustizia “Ciccio” avrebbe riferito che a far fuori Chiodo e Tucci sarebbe stato il gruppo degli “Zingari”. Un agguato a colpi di kalashnikov terminato con una fuga rocambolesca e un’auto occultata all’interno di un silos. «Ricordo la vicenda della macchina perché poi il mio gruppo uccise l’imprenditore che aveva aiutato gli “Zingari” a nascondere l’autovettura. Era una ripercussione per il duplice omicidio». Gli “Zingari” si sarebbero armati per mettere fine alla vita di Aldo Chiodo anche per motivi sentimentali. Pure Pulicanò ricorda alla Corte che «Silvio Chiodo (fratello della vittima, ndr) aveva una relazione con la compagna di Fiore Abbruzzese, detto “Nino”. In ambiente criminale questo è uno sgarro che non si può perdonare e immagino abbiano agito anche per questo». Sì, perché secondo diversi pentiti dell’area cosentina il rapporto tra gli “Zingari” e gli “Italiani” si sarebbe deteriorato a causa dell’insistenza con la quale i nomadi si volevano inserire nelle estorsioni. «So di queste cose non per conoscenza diretta – spiega ancora Pulicanò –. Sono cose che si dicevano nel mio gruppo. Può darsi che abbiano un fondamento, perché, nonostante la pace quando Silvio Chiodo venne scarcerato non voleva uscire di casa perché temeva di essere ucciso. Dico questo perché comunque in quegli anni era già stata raggiunta la pace». Il collaboratore di giustizia ha poi risposto alle domande poste dagli avvocati della difesa. Nel collegio compaiono i legali Maria Rosa Bugliari, Rossana Cribari, Filippo Cinnante, Cesare Badolato, Nicola Rendace, Francesco Tomeo e Gianfranco Giunta. Ci sarà da aspettare invece per l’esame di Annatonia Bevilacqua, anche lei nel novero dei pentiti. La compagna di Franco Abbruzzese, già condannato per questo delitto (qui il suo racconto), non si è presentata nonostante la richiesta di ascoltarla sia stata inoltrata per due volte, si tratterà comunque di una testimonianza residuale ma per il momento non c’è accordo sull’acquisizione del verbale di interrogatorio. (m.presta@corrierecal.it)
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