di Maria Rita Galati
CATANZARO Lo scrittore e poeta statunitense Thomas Wolfe definì “Dracula” il crocevia dei più intimi misteri primordiali: la morte, il sangue, l’amore e i loro reciproci legami. Sul palcoscenico del teatro Politeama “Mario Foglietti” di Catanzaro, trasformato per l’occasione un luogo sinistro e insolitamente cupo, i livelli di lettura del romanzo di Bram Stoker – e del suo personaggio principale – sono molteplici e sorprendenti. Nell’adattamento teatrale di quello che è il romanzo gotico per eccellenza, riscritto da Sergio Rubini, in scena nel ruolo del professore Van Helsing, assieme a Carla Cavalluzzi, lo spettatore – che resta con il fiato sospeso, anche senza fiato, per due ore senza interruzioni – è libero di scegliere quale strada intraprendere di fronte al quadrivio, senza una via precisa verso la destinazione finale della trama. Al fianco di un grande Rubini un altro degli attori più talentuosi e apprezzati del panorama artistico italiano, che abbiamo imparato a conoscere ed amare nel ruolo di Peppino Impastato, nel film di Marco Tullio Giordana “I Cento Passi”, Luigi Lo Cascio (con il quale aveva già lavorato in “Delitto e castigo”) nel ruolo di un tormentato Jonathan Harker.
Le inquietudini, il terrore, la paura, il senso dell’indeterminatezza e dell’impotenza di gestire il susseguirsi degli eventi che incalzano per due ore senza interruzioni, senza tempo e nello spazio angusto confinato nelle tenebre prendono forma e movenze nella grande prova d’artista del collaudato duo Lo Cascio-Rubini, e dell’intera compagnia, che vale la pena ricordare: la bravissima Alice Bertini nel ruolo di Mina, la moglie devota e puritana di Jonathan Harker; Roberto Salemi nei panni del dottor Seward, il folle Renfield è il figlio d’arte Lorenzo Lavia e Geno Diana, imponente Conte Vlad III di Valacchia che entra in scena alzandosi dalla platea nel silenzioso stupore del pubblico, dove tornerà per altri “quadri”.
Seguendo in apprensione le vicende dei protagonisti, avvolti nella nebbia che pizzica la gola e toglie il respiro, fino a sentire il freddo della neve che cade copiosa nelle cime della Transilvania, ci ritroviamo in un “non luogo” con lo stesso senso di spaesamento del giovane procuratore Jonathan Harker, incaricato dal suo studio legale di recarsi in Romania per concludere un affare immobiliare: la vendita di una casa a Londra al misterioso acquirente che altri non è che il conte “vampiro”. Un ‘non luogo’ comunque definito dall’uso interessante e innovativo della scenografia (di Gregorio Botta): le lapidi che disseminano il percorso in diligenza del procuratore Harker, scandito da ululati e cigolii, suoni lontani che diventano presagi di morte, diventano ora finestre da cui si affaccia la bella Mina, poi ancora pareti, porte e specchi rotti o vagoni di treno con passeggeri a bordo verso una ignota meta. E Dracula non è forse sempre presentato come un viaggio notturno verso l’ignoto? Tra cani che abbaiano, croci ai bordi delle strade e banchi di foschia, viene presentato anche come un viaggio interiore che Lo Cascio-Harker è costretto a intraprendere dentro se stesso, complice la sciagura in agguato, e il clima di mistero e illusione che diventa terrore reso sulle tavole del Politeama anche dal sapiente uso delle quinte, sinuose e veloci nel cadere verso gli inferi e risalire verso l’alto, agitate come onde nere nel mare sospeso. I quadri in cui gli attori si muovono sempre con suspence, nella combinazione di scarni elementi, tra le pareti cangianti e le poltrone mobili, solitari tavolini, vengono definiti dalle luci: si passa da una inquietudine ad un’altra saltando nel buco nero di un improvviso buio.
Il Dracula di Rubini&Co assume sembianze diverse dalla drammatizzazione cinematografia di Coppola, eliminata ad esempio la figura di Lucy e tutte le vicende che la interessano, così come non c’è traccia del Dracula romantico ed ammaliatore che affascina la bella Madame Mina: il Conte è semplicemente un mostro, quello che resta nascosto in ognuno di noi e che sovrasta l’interiorità di ciascuno nel momenti di vulnerabilità estrema. Struggente il monologo di Jonathan in apertura: come in un balletto letterario il racconto epistolare cede il passo al flashback, movimentando la narrazione senza fiato.
La tensione si scioglie in un lungo e meritatissimo applauso: Rubini e Locascio si concedono al pubblico con grande generosità e simpatia, il momento del saluto diventa quasi liberatorio, e conviviale.
Peccato per quelli che, puntualmente, appena si fa luce in sala, mentre ancora la compagnia si inchina per ringraziare, incuranti della buona creanza che dovrebbe essere onorata per rispettare il lavoro e il sacrificio di chi è stato in scena, e tener alto il buon nome di un teatro accogliente qual è il Politeama di Catanzaro, si precipitano lungo le scale per guadagnare l’uscita con cappotti e accessori al braccio. Meno male che Adele Fulciniti continua a lanciare i suoi fiori. (redazione@corrierecal.it)
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