CATANZARO La valorizzazione dei beni culturali e del patrimonio archeologico in Calabria passa dalle scelte burocratiche e politiche e poco da quelle scientifiche. Ed è su quest’ultimo aspetto che invece secondo Maria D’Andrea, archeologa e collaboratrice storica della Soprintendenza Archeologia della Calabria, insiste. Con lei, abbiamo discusso del presente calabrese dei reperti, passando dalla cronaca all’organizzazione in senso stretto del sistema.
Iniziamo dall’attualità. Recentemente una operazione della Procura di Crotone ha disarticolato un’organizzazione criminale dedita al commercio illecito di reperti archeologici. La base era in Calabria ma si estendeva a contatti in tutta Europa. Come spiega questo interessamento della criminalità per i reperti archeologici?
«Personalmente non credo ci siano interessi specifici della criminalità organizzata. Ritengo, piuttosto, ci siano dei personaggi, ovvero scavatori clandestini (i “tombaroli”), che utilizzano gli stessi canali per collocare materiali sul mercato e per accreditarsi in determinati ambienti. Quindi, si tratta di attività collaterali ed occasionali. Esistono siti calabresi che, purtroppo, negli anni precedenti, hanno attratto molto questi predatori che con le loro azioni, tese a recuperare oggetti, distruggono però la storia. Questi siti hanno restituito reperti archeologici particolarmente appetibili dal punto di vista estetico per i compratori e allo stesso tempo dal grandissimo valore scientifico per gli studiosi. Mi riferisco ad esempio alla vicenda del trafugamento dei materiali da Francavilla Marittima, reperti che sono stati dispersi tra la civilissima Svizzera – per anni una sorta di area di stoccaggio di oggetti – che li ha acquistati per l’università. Lo stesso è avvenuto a Copenhagen che, a sua volta, li ha immessi nella Gliptotek Ny Carlsberg, ma soprattutto quelli confluiti al Getty Museum di Malibù, negli Stati Uniti. È l’antica legge della domanda e dell’offerta; ed alcuni musei stranieri non si fanno scrupolo alcuno, ancora oggi, ad acquistare materiali di dubbia provenienza. Le tre istituzioni appena citate hanno restituito, negli anni, quanto la comunità scientifica aveva riconosciuto come provenienti da Francavilla; l’ultima restituzione è stata quella di Copenhagen, che si è concretizzata con la pubblicazione di un bellissimo catalogo ed una mostra temporanea, proprio a Francavilla, per mostrare ai cittadini quanto era stato loro sottratto. Tre anni fa mi è capitato di intercettare, in una mostra a Travagliato, in provincia di Brescia, una museruola in bronzo del V sec. a.C., scomparsa 40 anni prima da Crotone e di cui rimaneva solo un disegno che i tombaroli, in segno di sfida, avevano fatto recapitare al museo di Crotone. Sono andata a Brescia per accertarmi di persona che si trattasse dello stesso reperto, dopo aver avvisato i carabinieri del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale di Cosenza che, però, erano stati preceduti nel sequestro dai colleghi di Roma, anch’essi sulle tracce della bellissima museruola decorata con la scena di Eracle che strozza i serpenti. Lo stesso avvenne a Crotone nel 2014. Dei clandestini avevano scavato e depredato nel santuario di Hera, ai piedi della famosa colonna superstite del tempio. Mi ricordo bene dell’episodio perché in quel periodo con la collega Margherita Corrado conducevamo delle ricerche per conto dello Stato. Concludo, ricordando Vibo Valentia, l’antica Hipponion greca, dove i clandestini hanno scavato per anni in tutta tranquillità, in un cunicolo sotto la strada, dopo aver puntellato pareti e soffitto e aver asportato e distrutto stratigrafie dal valore inestimabile per la conoscenza della storia antica della città».
Quanto successo a Crotone si lega con la storia riportata a galla recentemente sul possibile furto di un bronzo o di parte dell’armamentario rivenuto ai due bronzi di Riace, pensa che questa sia una ipotesi plausibile quella del furto o è destinata a rimanere a metà strada tra la leggenda e le possibili ricostruzioni storiche?
«Ritengo che vi sia una palese volontà di tutti gli attori di questa vicenda a non voler andare fino in fondo. Tutti si schermiscono, tutti sfuggono, nessuno si sofferma seriamente ad analizzare e spiegare, ai calabresi in primis, che hanno il diritto di sapere. Sono anni che si sparla di questa storia; bisognerebbe incominciare a trattarla con documenti alla mano. E, soprattutto, se ne dovrebbe discutere, una volta per tutte, a livello scientifico. Spettacolarizzare gli avvenimenti non aiuta a chiarire quanto successo ormai molti anni fa. E neppure evidenziare i guai giudiziari di chi ha pubblicato i documenti dell’archivio della Soprintendenza archeologica aiuta a fare luce sulla vicenda e segnare un punto a favore della storia. A mio parere andrebbe messa in piedi una commissione d’inchiesta, lontano dai riflettori, per chiarire, in maniera definitiva come si sono svolti i fatti; è necessario capire, infatti, se ci sono stati trafugamenti ed eventuali vendite all’estero. Ritengo che quando le indagini sono svolte in maniera scientifica, portano a risultati e restituzioni (vedi Venere di Morgantina, gli stessi materiali trafugati a Francavilla Marittima). Un ruolo importante lo svolge la diplomazia italiana: negli anni scorsi sono tornati a casa, in Italia, numerosi reperti trafugati ed immessi in collezioni museali estere».
C’è un patrimonio archeologico in Calabria che non è adeguatamente conservato o valorizzato come si deve. Secondo lei è un problema strettamente meridionale o la regione è lo specchio dell’intera nazione?
«Il patrimonio archeologico, storico e artistico in Calabria è di grandissima qualità. Approfitto di questa chiacchierata per ricordare una bella figura di ricercatore e storico dell’arte che era Giorgio Leone, scomparso prematuramente tre anni fa, e che ha contribuito, con la sua attività ed i suoi studi, alla divulgazione della Calabria storico-artistica medievale e moderna, conferendo un grande impulso alla conoscenza di Mattia Preti, Francesco Cozza e tantissimi altri artisti che hanno valorizzato dimore storiche, chiese, castelli. Detto questo ritengo ci siano in Calabria esempi virtuosi di ottima valorizzazione e divulgazione, insieme ad altrettante situazioni problematiche e gestioni inadeguate. E i problemi che abbiamo in Calabria non sono diversi da quelli che vivono altre regioni. Stiamo attraversando un momento di grande difficoltà e confusione amministrativa e gestionale. Purtroppo, con la riforma attuata da Dario Franceschini, dal 2014 in poi, abbiamo assistito ad un repentino declino delle azioni di tutela e salvaguardia del territorio, alla delegittimazione di una parte del personale e, contestualmente, ad un eccessivo irrigidimento del personale preposto alla direzione dei musei che continua, il più delle volte, a svolgere un ruolo esclusivamente di conservazione a discapito dell’acquisizione di nuovi linguaggi per la divulgazione del patrimonio storico, artistico ed archeologico. Una riforma del settore, dopo molti anni, era necessaria tuttavia si è persa un’occasione: andavano tutelate le tante professionalità presenti nell’ambiente e dato valore a professionisti del settore che anche all’esterno dell’amministrazione pubblica hanno maturato esperienze importanti che avrebbero offerto un valore aggiunto ad azioni di ricerca. In due parole: tutela e valorizzazione».
Servirebbe a suo avviso una sorta di piano Marshall culturale per valorizzare il patrimonio artistico, archeologico e di beni culturali?
«No, secondo me non serve un piano Marshall culturale. Servirebbe, piuttosto, una sana collaborazione tra i vari pezzi dello Stato che attualmente procedono lungo rette parallele, ognuno per la propria strada, con il rischio di non incontrarsi mai e continuare a curare solo il proprio orticello. Spesso ci sono professionalità inadeguate alla guida di aree archeologiche e di importanti musei che necessiterebbero, soprattutto questi ultimi, di essere gestiti con piglio manageriale, con idee innovative per rendere appetibili e nella disponibilità dei cittadini gli immensi tesori che la Calabria possiede, e non accontentandosi di sopravvivere attraverso la più comoda ordinaria amministrazione. Tutto questo senza mai perdere di vista l’aspetto scientifico che deve sempre essere messo al primo posto, affinché i ricercatori facciano da ponte verso il pubblico. Con la riforma Franceschini i musei, naturalmente e strettamente collegati alle aree archeologiche ed al territorio, vivono ed operano distaccati dalla tutela. È necessario, invece, che ricerca, tutela e valorizzazione tornino ad essere un unicum per la salvaguardia del nostro patrimonio, per il bene comune».
Cosa si augura per l’intero settore archeologico?
«Vorrei che fosse riconosciuto il grande lavoro fatto dai tanti collaboratori esterni della Soprintendenza archeologica della Calabria, sui quali è ricaduto, spesso, il peso gravoso di situazioni molto difficili. Penso a tanti colleghi, ma soprattutto colleghe, che hanno ad un certo punto dovuto scegliere tra famiglia e lavoro, tra stipendio e precariato e rinunciare ad un lavoro appassionante in nome di una tranquillità economica che l’archeologia magari non riusciva più ad offrire. Penso a quanti hanno dovuto subire vessazioni in questo ambiente e comunque hanno continuato a fare questo mestiere a testa alta. Penso anche al fatto che la Calabria, oggi, non ha più bisogno di progetti faraonici che prevedano scavi a tappeto, perché, a mio avviso, va messo in sicurezza e subito quanto è stato scavato negli ultimi 30 anni. E soprattutto Infine mi piacerebbe che le università calabresi avessero un ruolo più attivo nella ricerca, nella tutela e nella valorizzazione dei siti, dei boschi, dei paesaggi e del mare, perché strumenti tecnologici, occasioni, ma soprattutto capitale umano, non mancano nei nostri atenei. Per far sì che il nostro territorio tutto, divenga un grande museo diffuso, apprezzato e difeso da noi Calabresi». (redazione@corrierecal.it)
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