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La violenza del branco e la fuga da Melito. «Qui la gente si gira dall’altra parte»

Lo sfogo del padre della ragazza stuprata per anni e la speranza di rinascere lontano dalla Calabria. La testimonianza di Stefania Gurnari, madre di Antonino Laganà: «In paese molti sono con lui, h…

Pubblicato il: 10/12/2019 – 7:38
La violenza del branco e la fuga da Melito. «Qui la gente si gira dall’altra parte»

di Francesco Donnici

MELITO PORTO SALVO «Quando io e la mia ex moglie abbiamo capito cosa stavano facendo a nostra figlia, per prima cosa sono andato a parlare al padre di uno di quei ragazzi. Qualche giorno dopo mi ha richiamato e mi ha detto: con il suo comportamento tua figlia si sta facendo una brutta nomea. In quel momento ho capito che eravamo soli». Questo è un estratto dell’intervista comparsa lo scorso 6 dicembre sulle colonne de La Stampa, rilasciata dal padre della giovane di Melito Porto Salvo vittima di ripetute violenze sessuali per più due anni, fino al settembre 2016. I carnefici, in questa storia, hanno nomi e cognomi ben definiti e facevano parte del gruppo di Giovanni Iamonte, figlio del boss Remingo, la cui presenza in particolare, fece risaltare l’orrore di Melito agli onori delle cronache. Degli 8 presunti responsabili individuati dalla Procura di Reggio Calabria nell’ambito dell’inchiesta “Ricatto”, in 6 sono stati condannati lo scorso dicembre: Davide Schimizzi, il giovane che la ragazzina credeva il suo fidanzato e l’ha “ceduta al gruppo”, condannato a 9 anni e 6 mesi; Giovanni Iamonte appunto, condannato a 8 anni e due mesi. Michele Nucera 6 anni e 2 mesi; Antonio Virduci 7 anni; Lorenzo Tripodi a 6 anni. Dieci mesi anche per Domenico Mario Pitasi, l’unico non accusato di reati sessuali. Per due di loro è invece arrivata l’assoluzione in primo grado. 
«Confidavo in un minimo di neutralità da parte dei nostri concittadini, perché io sono stato molto attento a non accusare nessuno fino alla sentenza di primo grado. Dopo le condanne, speravo di ricevere un po’ di solidarietà. Ma la solidarietà non è arrivata».
Oggi vive a centinaia di chilometri lontano da Melito, anche per dare alla figlia l’opportunità di rinascere, seppure dimenticare sarà sempre difficile: «Si sono schierati tutti con gli stupratori. Con il risultato che loro se ne vanno in giro liberamente per le strade della Calabria, mentre noi ce ne siamo dovuti andare lontano».
Dalla sofferenza di chi sente il peso dell’isolamento subito, pare emergere un quadro desolante della comunità di Melito, già nota alle cronache per un altro tragico accaduto. Era il 6 giugno 2008 quando Antonino Laganà, a soli tre anni, venne colpito alla testa da un proiettile mentre era in corso la recita di fine anno in una piazza della Madonna di Porto Salvo che quel giorno contava più di 500 persone. In quell’occasione, la vittima designata era il pregiudicato Francesco Borrello, condannato a morte dalla famiglia melitese dei Foti. Ma l’esecuzione doveva essere esemplare e doveva avvenire davanti all’intero paese. Borrello uscirà ferito da quell’attentato, ma per il piccolo Antonino e la famiglia inizierà un calvario lungo anni. 
«Si trovava nel posto sbagliato al momento sbagliato», si sente dire spesso in queste occasioni. Come se la piazza del paese vestita a festa fosse luogo deputato alle sparatorie, piuttosto che alla gioia di un bambino e della sua famiglia. Come se la speranza e l’atroce illusione di vivere un amore, per una ragazza di giovane età, fosse una colpa, per giunta non lavabile. E così non soltanto si diventa vittime, ma si viene inghiottiti da un incubo.

«LA FIACCOLATA ERA UN PUNTO DI PARTENZA» Il 17 settembre 2016, grazie alla caparbietà di alcune persone, venne organizzata una fiaccolata che doveva simboleggiare la presa di coscienza di una Melito che si schierava contro gli abusi subiti da quella giovane. Tra la folla c’era anche il padre, che in quel migliaio di luci vedeva ardere le sue residue speranze. Non molte, rispetto alla popolazione complessiva. Mai poche. 
C’era anche Stefania Gurnari, madre di Antonino, oggi responsabile memoria del coordinamento dell’associazione Libera di Reggio Calabria, che al Corriere della Calabria ha raccontato quei giorni fino alla Melito di oggi: «Conosco bene il padre di quella ragazza. So che persona è e so quanto si è speso affinché quella storia non finisse nel dimenticatoio». 
Stefania Gurnari vive ancora oggi a Melito e da quel giorno di giugno 2008, non si è mai fermata nel cercare giustizia, per i suoi cari, ma anche per la sua comunità: «Qui la gente ha la capacità di girarsi dall’altra parte. Di fare finta che le cose non accadano. Ma anche a Melito succedono cose brutte ed è giusto parlarne». Per questo risulta ancora più facile immedesimarsi nel dolore di chi ha dovuto – non per scelta – andare via: «Stiamo parlando della testimonianza di un padre. Non c’è solo dolore, ma soprattutto c’è il rammarico di chi ha scoperto di vivere in una città diversa da quella che aveva pensato fino a qualche giorno prima. Ed oltre a comprenderlo – continua – penso anche abbia avuto un grande coraggio». Non è facile, per un imprenditore, in questa parte della Calabria, denunciare pur sapendo che finanche la tua attività potrebbe risentire di questa scelta: «Anch’io ho fatto una scelta, pur consapevole delle conseguenze. Ho deciso di denunciare, andare in tribunale, costituirmi parte civile e a distanza di anni sono rimasta sola. Per anni il mio incubo era sentirmi dire frasi come: “chi te lo ha fatto fare”. Ma non potevo andare via perché ero io ad aver subito un torto».
LA MELITO CHE RESISTE La fiaccolata, nel 2016, che per molti sembrava essere un punto di arrivo, per Melito rappresentava un punto di partenza: «Perché a Melito ci sono anche tante persone per bene. Come Carmelo Gurneri, vincitore di una borsa di studio e che oggi, a Boston, sta tenendo alta la sua storia e le sue origini. Questa comunità – continua Stefania Gurnari – è fatta soprattutto di gente che ha deciso di distinguersi per non confondersi e che con quella fiaccolata condannava a prescindere quel gesto». 
Un impegno per ricordare che a Melito, come nel resto del mondo, esisterà sempre la dicotomia tra bene e male, ma che la nostra capacità sta nel saperli riconoscere entrambi, quindi schierarci: «Qui stiamo parlando di una scelta di resistenza. E va dato onore e merito a chi resiste: lui ha scelto non solo da padre, ma anche da uomo e questo, i veri melitesi, lo sanno». E proprio a lui vuole mandare un messaggio: «Voglio che sappia che in molti qui a Melito sono accanto a lui. Molti qui sono consapevoli che lui – a differenza di altri – è un uomo vero che ha preso di petto la situazione. E per sua figlia sarà sempre un esempio».
In questi esempi, oggi a Melito vive anche una comunità che resiste e non si dà per vinta, ma cerca di costruire: «Quando incontro i ragazzi a scuola, racconto sempre la storia di mio figlio e di questa ragazza così che i giovani siano consapevoli del contesto in cui vivono. E sono fiduciosa che quella giovane e la sua famiglia avranno giustizia. E questo è importante». 
Poiché la giustizia non può azzerare il torto subìto, non riporta indietro le lancette e non può restituirti chi hai perso, ma può aiutare ad aver ragione del dolore, sopportandolo: «Ti aiuta a sopravvivere e ad avere speranza. E ti ricorda che le sentenze non possono farle e non le faranno mai i mafiosi: le fanno i giudici nei tribunali». (redazione@corrierecal.it)

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