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Il braccio economico dei Commisso e gli agganci nella massoneria di Perugia

La telefonata tra il boss e Rodà per trovare occupazione a un’amica. «Una volta avevamo mille riferimenti, c’era Mimmo Macrì», imprenditore arrestato nell’operazione “Decollo Money”. «In Calabria c…

Pubblicato il: 13/12/2019 – 8:34
Il braccio economico dei Commisso e gli agganci nella massoneria di Perugia

di Pablo Petrasso
REGGIO CALABRIA Antonio Rodà, per i magistrati della Dda di Reggio Calabria, è il referente economico del clan Commisso in Umbria. Un terminale operativo che accelera il processo di ambientazione “criminale” del boss Cosimo dopo il suo trasferimento a Perugia, in località Casa del Diavolo. È con Rodà che Commisso affronta i temi che riguardano la “protezione” del patrimonio della cosca dai sequestri dell’antimafia. È con lui che cerca terreni da trasformare in vigneti. È ancora Rodà a confezionare “scatole cinesi” per schermare il potere economico del clan.
Per questo motivo, le telefonate tra i due assumono per gli investigatori un rilievo notevole. Nell’ordinanza di custodia cautelare finisce un colloquio del 21 settembre 2016. Commisso si rivolge all’amico «per trovare un lavoro a una ragazza del luogo amica sua, preferibilmente in uno studio di consulenza fiscale». La crisi, però colpisce tutti. E quando si accompagna a inchieste della magistratura, va male anche ai clan più potenti.
La risposta non è esattamente un “no”. Ma solleva problemi e apre scenari sui rapporti tra il sodale dei Commisso e la massoneria perugina. Rodà comunica al “capo” «che sarebbe stato difficile trovarle una occupazione» perché i «tempi erano differenti dal passato» quando si potevano chiedere favori a «tanti soggetti». Il clima in quel momento era cambiato. E il braccio economico della cosca «imputava tale difficoltà a una inchiesta giudiziaria che aveva svelato la presenza sul territorio perugino di una consorteria massonica». L’inchiesta – e le ripercussioni sulla massoneria – ruotano attorno alla figura di Domenico “Micuccio” Macrì, imprenditore di Città di Castello (ma originario di Nicotera, nel Vibonese) arrestato nell’ambito dell’operazione “Decollo Money” ed espulso dalla massoneria. Macrì, accusato nel 2011 di aver fatto da tramite tra il nascotrafficante Vincenzo Barbieri, legato al clan Mancuso e il Credito Sammarinese, è stato uno dei più autorevoli esponenti del Grande Oriente d’Italia, nel quale – secondo quanto riportò all’epoca umbria24.it – ha rivestito il ruolo di “Grande Ufficiale” e “Gran Cerimoniere”. Quel sistema, secondo quanto racconta Rodà, era stato scardinato. Il broker fa intendere «che nel passato si era servito di questa associazione massonica per ottenere dei favori: “Noi abbiamo, glielo puoi dire pure a lei che se è una di vita lo conosce, un riferimento… noi avevamo mille riferimenti una volta… oggi purtroppo dopo che è successo ‘sto cazzo di fatto di questo Mimmo Macrì di massoneria che era alla luce di tutti sul territorio, era lui, ma nel sistema…”».
Commisso, a quel punto, chiede se è vero «che la massoneria gestiva qualsiasi cosa a Perugia». E Rodà, «di fatto – sintetizza il gip – gli rispondeva che ciò corrispondeva al vero e faceva una similitudine con la Calabria, dove la ‘ndrangheta controllava in toto il territorio: “Ti posso dire una cosa, come magari chi non conosce giù in Calabria, il sistema pare che è tutto sotto controllo, e chi controlla? E la stessa cosa è qua». (p.petrasso@corrierecal.it)

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