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"Ditegli sempre sì", in scena al Politeama il confine (labile) tra follia e normalità

Il dolore latente di Michele, che torna a casa dopo un anno in manicomio, raccontato nell’atmosfera pirandelliana della messa in scena

Pubblicato il: 15/12/2019 – 12:41
"Ditegli sempre sì", in scena al Politeama il confine (labile) tra follia e normalità

di Maria Rita Galati
CATANZARO «Ci sono le parole adatte, perché non dobbiamo usarle», ripete Michele Murri (Gianfelice Imparato) a quanti cercano di spiegargli una situazione o raccontargli una storia con inutile giro di riferimenti che per lui, appena uscito dal manicomio dopo un anno, risultano semplicemente superflui. E la parola adatta per definire lo spettacolo che ieri sera ha tenuto – finalmente – inchiodato il pubblico del teatro Politeama “Mario Foglietti” di Catanzaro, fino al calare del sipario, tra applausi meritatissimi, non può che essere: bello. Divertente e amaro nello stesso tempo per il modo delicato con cui esplora il confine incerto tra pazzia e normalità, gli attori diretti da Roberto Andò mettono in scena Ditegli sempre di sì. Una commedia divertente un po’ bizzarra di Eduardo De Filippo – a tratti esilarante – vivace e caustica, ben orchestrata nelle interpretazioni eccellenti dei protagonisti, primi tra tutti Gianfelice Imparato nei panni di Michele Murri, il frizzante don Luigino-Eugenio Sorgente, e Teresina-Carolina Rosi. Bravi tutti: Nicola Di Pinto, Massimo De Matteo, Federica Altamura, Andrea Cioffi, Paola Fulciniti, Viola Forestiero, Vincenzo D’Amato, Gianni Cannavacciuolo, Boris De Paola (le scene e luci Gianni Carluccio, i costumi di Francesca Livia Sartori).
Ditegli sempre di sì, è uno dei primi testi di Eduardo, scritto nel 1927 e rappresentato per la prima volta l’anno successivo da Scarpetta, arriva dopo Questi fantasmi! e Non ti pago.
È la storia di un uomo, Michele Murri che torna a casa dopo un anno in manicomio, accolto dalla sorella Teresa (Carolina Rosi). Un lungo periodo che per “gli altri”, quelli a cui la pazzia, o presunta tale, va nascosta, viene raccontato come “un lungo viaggio per affari”. Il sipario si alza e si chiude sulle note di Verdi de “La forza del destino”: il melodramma irrompe anche con la musica in quella stanza anni cinquanta, con al centro un divano che diventa letto all’occorrenza, un po’ appartamento e un po’ clinica. Quasi sentiamo il freddo che quei vecchi termosifoni di ghisa appesi alla parete, e che non riescono a scaldare, richiamano sulla pelle, in attesa dell’irruzione di quel pazzo tranquillo che torna a casa grazie alle cure di uno psichiatra ottimista. Michele sembra essere ragionevole e gentile, tornato alla vita normale. Ma la sua follia resta latente e torna reale, nella mania di perfezione – come quando continua a sistemare le sedie del salotto – e si nasconde nella logica fanciullesca di un mondo semplice a cui è stato rieducato in manicomio.
Quella del ritorno a casa porta una felicità dimessa, dal sapore amaro di un dolore latente, fin dal suo entrare in scena: Michele tiene la testa un po’ piegata in avanti, ha un sorriso insicuro, un incedere timoroso. Tra divertenti equivoci, fraintendimenti, menzogne, illusioni, lo spettatore si ritrova calato in un’atmosfera pirandelliana con il tema della pazzia che viene sovvertito, rovesciato fino al pranzo del secondo atto che è davvero un capolavoro, ben costruito dal regista Andò e reso dagli sguardi, dalla trama dei movimenti di una squadra di attori davvero affiatata. E così scopriamo che non siamo di fronte ad un sano che si finge pazzo, ma l’autentica e infelice follia di Michele si svela nella sua drammaticità solo alla fine. La compagnia di Luca De Filippo, oggi diretta da Carolina Rosi, mantiene viva l’eredità del grande Eduardo. (redazione@corrierecal.it)

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