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«Il nodo (mai sciolto) che strozza la Calabria»

di Romano Pitaro*

Pubblicato il: 16/12/2019 – 17:23
«Il nodo (mai sciolto) che strozza la Calabria»

Calabria, non si smentisce mai. E’ quasi nella sua natura differenziarsi. Segno, è vero, che c’è dell’originalità, ma anche uno scollamento dalle peripezie esterne e qualcuno potrebbe aggiungere che tanto, qualsiasi cosa accada qui, non influisce su nulla; e a nessuno gliene frega un’h, se la Calabria va liscia o s’arrotola fino a strozzarsi. Qui i disagi del Paese, documentato tutti gli istituti d’analisi, eccellono in gravità, le contraddizioni, che vanno avanti da dieci legislature regionali (50 anni), invece di appianarsi divampano. Quando nel ’70 nacque la Regione ci mancò poco che l’esercito, per sedare la rivolta, entrasse con i carri armati in una delle città più importanti del Mezzogiorno come Reggio. Poi, invece di dare risposte a quelle proteste di popolo, si trovò il modo di esorcizzarle tacciandole come fasciste e mafiose. Irrequieta, la Calabria non sta nei ranghi. Ed è pur vero che chi i ranghi li comanda, orientando le scelte di politica economica, l’ha sempre mortificata. E’ la terra global ante litteram, grazie alla moltitudine delle straordinarie “Calabrie della diaspora”, eppure la più distratta verso i problemi local. Che si sommano a vista d’occhio. E ad enumerarli viene il mal di testa. E anche quando ci si mette di buzzo buono per risolverli, si parano davanti ostacoli, polemiche e divisioni che vanificano gli sforzi. Global per necessità, dall’800 in avanti, dovrebbe essere la regione più versata in relazioni internazionali, pronta a discutere di tecnologie sofisticate, di intelligenza artificiale ed economia finanziaria, ma soprattutto capace di trasformare “i flussi del Mediterraneo in piattaforme di relazionalità”, come suggerisce il Censis.
Invece, snobbando (o non avendo il tempo d’occuparsene) la sua felice posizione geopolitica nel Mare Nostrum, è arroccata nei suoi confini e stenta persino ad affacciarsi oltre il Pollino. Unendo i puntini delle “Calabrie” sul mappamondo, la Calabria potrebbe esercitare un’influenza planetaria, eppure stenta a stabilizzare la sua di governance. Se dappertutto in Italia, quando si vota per le Regionali, si arriva per tempo alla designazione dei candidati alla Presidenza e alla definizione di liste e programmi, in Calabria s’innesca una complicazione hard con l’aggravante di impedire agli elettori persino di capire come si giunge alle scelte Presidenziali o perché il Presidente uscente, all’improvviso, non va più a genio. A pochi giorni dalla presentazione delle liste, l’aggregazione che sulla carta ha più chance di vittoria, pur avendo l’esercito schierato, manca del candidato Presidente. Non è più politica, ma un intrigo dispettoso, un thriller con tanto di suspense e colpi di scena. Nessuno si sorprenda, poi, se il “non voto” il 26 gennaio sarà il primo partito. Se fra politici e cittadini si spalanca un abisso di sfiducia e suonano le trombe della protesta inconsulta e del rancore sociale. Insomma, non s’assiste ad un serrato confronto sulle idee, magari con un occhio puntato sulle questioni interne e l’altro alle dinamiche nazionali ed internazionali che maledettamente incidono sulla stessa qualità della vita di ciascuno di noi, piuttosto a sommovimenti tellurici dentro le principali forze politiche completamente scissi dai bisogni reali delle persone. Non un dibattito sulle cose fatte e sulle cose da farsi ci propina lo scenario politico e neppure un confronto-scontro sulle modalità che si vorranno utilizzare per imporre al governo e al Parlamento, colpevoli di un feroce disimpegno sui ritardi di questa parte del Mezzogiorno, un’attenzione specifica sul “caso” Calabria. Un “caso” tutt’altro che casuale, perché è la torbida risultante della commistione (storica) fra sottosviluppo e pervasività della criminalità organizzata e fra ingenti risorse pubbliche affluite e le perduranti lacune infrastrutturali, materiali e immateriali, che isolano la Calabria anche fisicamente e costringono i suoi giovani alla fuga.
Nel mondo che ha preso una velocità inaudita, il sistema-Calabria, o quel che di esso rimane al netto di esodi, spopolamenti e abbandono delle aree interne, mafia, disoccupazione, diseguaglianze e povertà connesse al crollo del welfare, rischia di staccarsi dall’Italia, divenendo uno sfasciume sociale pendulo sul Mediterraneo. Appendice fastidiosa e incorreggibile di un’Italia che è nave senza nocchiero. Bordello. Invece di attardarsi su questi guai, la politica calabrese sembra ossessionata dalle sovrastrutture, dai personalismi e dagli spazi pubblici che occorrerà presidiare, tralasciando di dirci come riformerà la struttura economica in ginocchio, rilanciare l’occupazione, ridare dignità alla sanità colabrodo, fare del porto di Gioia Tauro “la porta sul mondo del Mezzogiorno”. Ed anche, questione tutt’altro che laterale, su come intenda adoperasi per rinsaldare lo spirito identitario di una terra che, soprattutto nell’ultimo ventennio, ha smarrito ogni coesione sociale e la memoria della propria millenaria storia. La domanda a cui bisognerebbe rispondere è: come spezzare il nodo scorsoio attorno al collo della Calabria? Con quali strumenti e quali solidarietà nazionali ed europee smuovere dall’inerzia? Certo, non è una novità per la Calabria essere un “caso”. Lo è sempre stato, fin da quando la Regione s’è insediata, sdoppiata fra Reggio e Catanzaro.
Fin da quando lo Stato con il famigerato “pacchetto Colombo”, per rispondere all’immane disagio sociale, se la cavò con impegni mirabolanti che garantivano migliaia di posti di lavoro attraverso il sogno ingannevole dell’industrializzazione utile ad ingrassare le imprese del Nord e a deturpare parte del paesaggio. Da allora la Calabria insegue inutilmente la possibilità di ampliare la base produttiva e porre fine a ciò che il primo Statuto regionale, approvato a Catanzaro nel ’71, definiva “la storica arretratezza” di una terra castigata fin dall’Unità d’Italia. Nel ’77, quando già era una chimera il quinto centro siderurgico promesso dai partiti di governo e dai loro leader locali, il sindacato lanciò con un’imponente manifestazione a Roma la “vertenza Calabria”, e fu proprio in quell’occasione che il meridionalista Pasquino Crupi chiese (dalle colonne della testata “Calabria oggi”) di “sciogliere il nodo scorsoio dal collo della regione”. Non fu sciolto: alla Calabria, che compattamente chiedeva lavoro, mentre la mafia diventava onnivora e spietata e gli spiriti più combattivi venivano tacitati, si aprirono soltanto le porte dell’emigrazione e dell’assistenzialismo. Un “caso” ieri un “caso” oggi, per cui si potrebbe inferire che non c’è niente di nuovo sotto il sole. Ma non è così. Sostanziali sono le differenze. Mentre ieri c’era, in uno scenario bipolare internazionale stabile, una regia politica nazionale in grado di governare i processi economici e sociali, oggi, col mondo immerso nelle giravolte globali e con i poteri economici intenti a smantellare le reti democratiche degli Stati per meglio godere di una costante e crescente fluidità per le loro operazioni finanziarie, soprattutto per regioni come la Calabria è tutto più complicato. Con la politica italiana ridotta a psicodramma, le cui narrazioni si condensano in sfilze di slogan chiassosi e stinti, priva della capacità di proporre una lucida prospettiva con cui fronteggiare i drammi del Paese, per regioni che annaspano come la Calabria, la strada è più dura. Perciò come mai adesso la Calabria avrebbe necessità di ricompattare, non certo di frantumare fino all’inverosimile, le proprie energie politiche e culturali, ricucendo lo strappo fra tradizione e modernità e irrobustendo i legami col meglio della sua società. Ma, come si vede, non è quanto sta accadendo. E tutto ciò a chi porta giovamento?

*giornalista

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