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"Propaganda live" racconta una Calabria di chiaroscuri. «Restiamo per ricordare le nostre storie»

Gli inviati, accompagnati da Antonio Talia, percorrono la statale 106 attraversando la locride, tra «cattedrali nel deserto» e storie «uniche». Stefania, impiegata dell’ospedale di Locri, racconta …

Pubblicato il: 12/01/2020 – 11:21
"Propaganda live" racconta una Calabria di chiaroscuri. «Restiamo per ricordare le nostre storie»

LAMEZIA TERME «La Calabria è l’unico posto dove mi sono sentita minacciata per il mio lavoro di giornalista». Queste sono le parole di Constanze Reuscher a commento del servizio andato in onda nell’ultimo episodio di Propaganda live dedicato alla statale 106 e alla locride.
Il conduttore Diego Bianchi, accompagnato dall’inseparabile “spalla”, Pierfrancesco Citriniti e da Antonio Talia, autore del libro-inchiesta di recente uscita “Statale 106. Viaggio sulle strade segrete della ‘ndrangheta” è partito da Reggio percorrendo quasi per intero il tratto della statale raccontato proprio dallo stesso Talia, attraversando una serie di paesi, Locri e Bovalino su tutti. Il viaggio è servito a raccontare – anche nelle immagini – una terra di “incompiuti” e contraddizioni; di storie e di memoria, come quella di Stefania. Soprattutto, l’impatto restituito a bruciapelo da questo viaggio è quello di una Calabria vista dall’esterno di se stessa, attraverso la narrazione necessaria ancorché negativa di una terra che pare rimasta sospesa nel tempo. Una narrazione che gli stessi calabresi, spesso, non si sforzano di contraddire. Si spiega anche così l’affermazione della giornalista esperta di politica estera ed ospite fissa del talkshow che fa il paio col commento di Paolo Celata: «Siete stati in molte zone difficili, ma non vi avevo mai visti scappare». «Ci sentivamo un po’ osservati», la risposta di Diego Bianchi.
IL VIAGGIO Dopo l’approdo nello scalo reggino, la telecamera degli inviati si sofferma spesso sui tanti edifici “non finiti” ormai divenuti un marchio (di fabbrica) della regione. Al contempo, l’accoglienza e la spontaneità di molti, unita al buon cibo, bilanciano un racconto fatto di chiaroscuri. A Locri, gli inviati speciali incontrano il sindaco, Giovanni Calabrese, che racconta le vicissitudini della città e la voglia di fare, soffermandosi sui recenti fatti di cronaca giudiziaria che hanno interessato la zona. «C’è stata un’inchiesta contro il clan Cordì collegata ad un’altra che ha dimostrato come i clan fossero diventati padroni del cimitero cittadino» (ve ne avevamo parlato qui). Altro punto dolente toccato dal primo cittadino è stato quello dell’ospedale, «le cui condizioni, ormai da troppo tempo, non permettono di tutelare la salute dei cittadini».
LA STORIA DI STEFANIA E all’ospedale di Locri lavora Stefania, che racconta la sua storia fatta di dolore, resistenza e memoria.
«A Locri c’è un problema dell’ospedale?», chiede “Zoro” a Stefania, impiegata della struttura. «Sì, a Locri c’è un problema che è legato a un diritto fondamentale che è quello della salute. Nel disinteresse generale». Ma questo non è il solo problema di Locri e di tutta quella fascia di Calabria: «Un altro diritto fondamentale è la mobilità. Per noi è molto difficile muoverci ed arrivare nei diversi paesi, anche con la macchina, per non parlare dei mezzi pubblici».
Punto essenziale dell’intervista è proprio la narrazione della Calabria: «Ti avranno detto di far vedere anche le belle cose – chiede Stefania – ché qui si viene sempre per parlare delle stesse cose».
«Perché non se ne dovrebbe parlare? – la risposta di Bianchi – di ‘ndrangheta si parla molto: ora non so quanto se ne parli a Locri, ma in Italia se ne parla moltissimo».
E proprio questo tema tocca direttamente Stefania e la sua storia. «Questo territorio – racconta – ha lasciato il segno in moltissime famiglie per bene. Ha ucciso persone innocenti, anche persone comuni che avevano scelto una strada di disobbedienza pensando che denunciare fosse la cosa giusta». Anche a
Stefania la ‘ndrangheta ha portato via una persona cara: «Mio padre è stato ucciso. Ma sono comunque rimasta in questa terra e non ho trovato giusto andarmene. Per l’omicidio di mio padre chiedo ancora giustizia». Il padre di Stefania è stato assassinato il 23 marzo 1989 per aver denunciato delle richieste estorsive, ma la sua storia è una delle tante che – a distanza di circa 31 – non conosce giustizia. Fascicolo d’indagine aperto contro ignoti e poi archiviato: «Al di fuori di questi luoghi è molto difficile parlare di storie di persone che hanno reagito. Bisogna tornare a vivere comunque, bisogna andare avanti seppure con una grande pena nel cuore». La giustizia, in questi casi, è fondamentale: «Io non so chi ha ucciso mio padre e mi domando sempre se sia meglio sapere o non sapere. La giustizia ha una profonda valenza di riconciliazione: solo attraverso la giustizia si riesce a ritrovare un senso in quello che è successo». Nonostante tutto, Stefania è rimasta «perché questa è una terra che quando la ami, la ami profondamente. Sono rimasta anche perché voglio continuare a pungolare, affinché queste storie non cadano nel dimenticatoio». Da qui l’importanza della memoria e dello scambio tra i familiari delle vittime innocenti di ‘ndrangheta.  La narrazione delle loro storie mantiene viva la memoria e serve a raccontare una terra dove bellezza e bruttezza si pongono alla stessa distanza l’una dall’altra, come il mare e i monti di un territorio, quello calabrese, unico nel suo genere: così vicini da fare quasi fatica a comprendere dove inizi l’uno e finiscano gli altri. (f.d.)

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