REGGIO CALABRIA «La San Marino di Reggio Calabria». Così gli affiliati alla cosca Labate di Reggio Calabria definivano, in dialoghi che sono stati intercettati, il quartiere Gebbione, un ampio territorio nella zona sud della città. È uno degli elementi emersi dall’inchiesta “Helianthus” (qui i dettagli dell’operazione) condotta dalla Squadra mobile reggina diretta da Francesco Rattà con il coordinamento della Dda che ha portato all’arresto di 14 persone tra capi e gregari della ‘ndrina.
«Non c’era attività commerciale – ha detto il procuratore di Reggio Giovanni Bombardieri incontrando i giornalisti – al dettaglio o all’ingrosso, che non fosse taglieggiata sistematicamente dagli arrestati, tutti appartenenti alla cosca capeggiata dal boss Pietro Labate, dai suoi fratelli e dai loro accoscati. L’indagine ha preso avvio quattro anni orsono dopo la cattura di Pietro Labate, che nel quartiere godeva di protezione e complicità. Una cosca, quella dei Labate, detti “i ti mangiu”, che era riuscita a crearsi uno spazio autonomo, equidistante, nella guerra di ‘ndrangheta degli anni ’80 tra il raggruppamento capeggiato dai De Stefano e gli scissioni capeggiati dal capo bastone Pasquale Condello “il supremo”. Da qui i Labate hanno costruito un’immensa fortuna, soffocando letteralmente ogni attività imprenditoriale nel territorio sud cittadino, tra le Sbarre Centrali e il mare. Un territorio vasto, economicamente vivace per la presenza di centinaia di piccole e grandi attività, di iniziative nel settore edile, dove l’imposizione della tangente era una prassi a cui molti si piegavano per paura di gravi ritorsioni».
Il questore Maurizio Vallone ha sottolineato da parte sua «il valore degli imprenditori di collaborare in questa indagine, che hanno avuto la forza di denunciare, ma possiamo affermare che oggi a Reggio e in Calabria sono di gran lunga migliorate le condizioni di fare impresa liberamente, perché noi, lo Stato, ci siamo».
Il dirigente della squadra mobile Francesco Rattà, tracciando i profili degli arrestati, ha evidenziato «la storica appartenenza alla cosca Labate di Domenico Foti “vecchia Romagna”, di 59 anni, imprenditore all’ingrosso di prodotti di carta e plastica, e Orazio Assumma, 60 anni, che imponeva a tutti gli imprenditori edili che costruivano nel “Gebbione” di rifornirsi nel negozio di materiali del figlio, di fatto nella sua disponibilità». Rattà ha anche reso noti i contenuti di alcune conversazioni tra gli elementi della cosca e i taglieggiati: «Qui si paga, non c’è niente per nessuno. O è carne o è brodo, tutti devono darci conto e pagare».
«LO STATO AUMENTI LA TUTELA PER I TESTIMONI» Bombardieri ha poi sottolineato come «l’operazione, condotta in maniera davvero puntuale dalla Squadra mobile» sia «riuscita a far emergere un quadro davvero allarmante sul come la ‘ndrangheta imponga le sue ragioni. Il contributo dei collaboratori di giustizia (Enrico De Rosa, Mariolino Gennaro, il “re del videopoker” e Giuseppe Liuzzo), anche in questo caso, ha trovato pieni riscontri, ma è necessario anche evidenziare il coraggio di alcuni giovani imprenditori edili che, stanchi di pagare e subire minacce, si sono rivolti alle forze dello Stato per chiedere aiuto e sostegno».
«Un comportamento esemplare – ha aggiunto – a cui lo Stato deve corrispondere pari impegno. In tal senso, ho posto all’attenzione al capo della Polizia e ai rappresentanti delle istituzioni nazionali il doveroso potenziamento dei servizi di sicurezza, attivi e passivi, per tutelare le persone che decidono di collaborare».
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