REGGIO CALABRIA Ha un nome e un volto il secondo killer dell’assassinio di Giuseppe Cartisano ucciso a Reggio in una missione di morte il 22 aprile 1988. Si tratta di Vincenzino Zappia detto “Enzo” 51 anni, attualmente detenuto per altra causa. I carabinieri, al termine di una lunga indagine, coordinata dalla Distrettuale antimafia reggina, lo hanno arrestato. L’indagine – avviata nel settembre del 2019 e condotta dal nucleo investigativo dei carabinieri di Reggio coordinata dal procuratore della repubblica di Reggio Giovanni Bombardieri e dal sostituto Procuratore Walter Ignazitto, ha consentito di fare completa chiarezza su uno dei fatti di sangue più efferati ed eclatanti della faida reggina a cavallo tra gli anni 80 e 90: appunto l’omicidio di Giuseppe Cartisano.
LA MISSIONE DI MORTE Secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, i due killer entrarono in azione la sera del 22 aprile 1988 all’interno del bar gelateria Malavenda, nella centralissima piazza De Nava, laddove affrontarono apertamente il Cartisano, colpendolo a morte con numerosi colpi di arma da fuoco. Durante la loro fuga, però, furono intercettati ed inseguiti da una pattuglia dei carabinieri, al cui indirizzo esplosero diversi colpi di arma da fuoco allo scopo di guadagnare la fuga.
Nel corso del conflitto a fuoco che ne seguì, rimase ucciso uno dei due sicari, Pellicanò, mentre l’altro (oggi identificato Vincenzino Zappia) sebbene gravemente ferito, riuscì a dileguarsi, approfittando dell’aiuto fornitogli da alcuni complici.
LE NUOVE TECNICHE INVESTIGATIVE A consentire l’individuazione del secondo killer di quell’efferato omicidio le nuove tecniche investigative a disposizione degli inquirenti. In particolare sulla scena del delitto, all’epoca i carabinieri rinvennero e repertarono – lungo la via di fuga dei killer – consistenti tracce ematiche.
Si trattava del sangue che uno degli assassini aveva perduto, dopo essere stato colpito alla gamba nel corso del conflitto a fuoco con i carabinieri. Gli accertamenti tecnici condotti nell’immediatezza su quel materiale biologico, non consentirono, tuttavia, per le conoscenze tecnico-scientifiche dell’epoca, di individuare l’esecutore materiale di quel delitto. Soltanto nel 2019, la Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria, nel riesaminare le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia (che avevano fornito indicazioni su quella vicenda nell’ambito del processo c.d. Olimpia e nel corso di indagini successive), ha proceduto ad una nuova ed accurata verifica degli atti processuali, recuperando i reperti di tracce ematiche rimasti custoditi per più di trent’anni negli archivi giudiziari.
Sono stati quindi delegati accertamenti genetico molecolari sui campioni di sangue in sequestro che, grazie alle moderne tecniche di laboratorio, hanno permesso ai carabinieri del nucleo investigazioni scientifiche – Reparto Investigazioni Scientifiche di Messina di estrapolare il Dna nucleare utile per fini identificativi. La successiva comparazione di laboratorio ha fornito la definitiva ed inequivocabile conferma circa l’identità del killer fuggito all’epoca dei fatti.
È stata infatti riscontrata la perfetta sovrapponibilità tra il profilo genetico molecolare estratto dalle tracce ematiche rinvenute sulla scena del crimine e quello ricavato dal tampone salivare di Vincenzino Zappia. L’individuazione dell’impronta genetica, per di più, si aggiunge, corroborandolo, al già corposo quadro dichiarativo reso da numerosi collaboratori di giustizia, in merito al coinvolgimento diretto dello Zappia nell’agguato mortale di piazza De Nava.
L’indagine ha ulteriormente certificato l’appartenenza dell’uomo alla potente cosca di ndrangheta dei “De Stefano-Tegano”, attiva in Reggio Calabria, per conto della quale aveva portato a compimento anche l’omicidio del giovane Cartisano.
Le risultanze investigative hanno consentito di ben delineare la spiccata caratura criminale del destinatario del provvedimento di oggi, impostosi come uno tra i più spietati elementi dei gruppi di fuoco che la compagine di appartenenza, durante la seconda guerra di ndrangheta, aveva approntato per far fronte alle offensive delle cosche avversarie. Sullo sfondo una cruenta lotta senza quartiere ingaggiata per il predominio mafioso – territoriale sulla città di Reggio Calabria.
LA STORIA DELLA SECONDA GUERRA DI COSCHE IN RIVA ALLO STRETTO Tra il 1985 ed il 1991 la città di Reggio Calabria fu teatro di un cruento scontro armato tra le cosche passato alla storia come “seconda guerra di ndrangheta”, all’esito della quale venne ridefinita la nuova struttura gerarchica ed organizzativa della ndrangheta.
Diverse sono le motivazioni che avevano spinto i clan ad entrare in guerra. Di certo, tra le cause scatenanti il conflitto, vi furono i dissidi insorti tra le cosche Imerti e De Stefano che avevano manifestato un certo interesse ad espandere la loro influenza sul territorio di Villa San Giovanni anche in previsione dei futuri interessi economici legati alla possibile realizzazione del ponte sullo Stretto di Messina.
Il 16 febbraio del 1985, il boss Antonino Imerti alias “Nano Feroce”, contrae matrimonio con Giuseppa Condello sorella del boss Domenico inteso “Micu u Pacciu”, nonché cugina di Pasquale alias “Il Supremo”. Prima dell’inizio della guerra tra clan, i Condello erano federati ai De Stefano, in particolare Pasquale “Il Supremo” era uno degli uomini di fiducia del defunto boss Paolo De Stefano, la cui famiglia di ndrangheta guardò con forte preoccupazione all’unione tra le due cosche Imerti e Condello, ritenendo che da questo nuovo vincolo sarebbe potuta nascere una forte minaccia in grado di intaccare la loro egemonia sul territorio. Da qui la decisione dei De Stefano di compiere un attentato alla vita di Antonino Imerti, nei confronti del quale – in data 11 ottobre 1985 – venne fatta esplodere un’autobomba a Villa San Giovanni che causò la morte di alcuni suoi affiliati ma non quella del boss. In risposta al cruento attentato, due giorni più tardi, il 13 ottobre 1985, un commando armato formato da esponenti del clan Imerti – Condello entrò in azione nel quartiere di Archi, cuore del territorio dei De Stefano, uccidendo in un agguato il boss Paolo.
È questo l’evento che sancisce l’inizio della seconda guerra di mafia a Reggio Calabria, con la violenta contrapposizione tra le famiglie di ‘ndrangheta presenti sul territorio e sostanzialmente suddivise in due cartelli. In particolare al cartello “Condelliano” facevano parte le famiglie mafiose degli Imerti, Saraceno, Fontana, Rosmini, Araniti, Lo Giudice, Serraino ed altri. Mentre al contrapposto “De Stefaniano” si associavano le famiglie mafiose dei Tegano, Libri, Latella– Ficara, Barreca, Paviglianiti ed altre ancora.
Nella sanguinosa guerra tra i due cartelli alla fine si contarono oltre 700 morti. Uno scontro armanto che si concluse nell’anno 1991 con una pace concordata tra le famiglie mafiose del mandamento reggino, le quali si divisero il territorio in zone di influenza.
IL PROFILO CRIMINALE DI ZAPPIA Zappia Vincenzino, detto “Enzo”, è un personaggio dalla rilevante caratura criminale. Secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, l’uomo sin da giovane, infatti, è tra le figure più in vista nel panorama criminale reggino che si consacra, in modo particolare, durante “seconda guerra di mafia”. Molto vicino al boss Giuseppe De Stefano, Zappia si è contraddistinto per essere un uomo d’azione, un killer spietato dello schieramento “De Stefaniano”, all’epoca dei fatti contrapposto a quello “Condelliano”.
La carriera del killer dei De Stefano, attualmente detenuto per altra causa, è ben delineata nell’inchiesta giudiziaria “Il Padrino”, per la quale è stato tratto in arresto nel 2014 insieme ad altri numerosi esponenti delle cosche De Stefano-Tegano, tra loro federate, e al termine del processo scaturito da quell’indafine è stato condannato a anni 17 di reclusione per associazione mafiosa.
Ma già in passato altre indagini coordinate sempre dalla Distrettuale reggina ne avevano ben tratteggiato il suo profilo delinquenziale dell’uomo. Era stato coinvolto, in particolare, nella ben nota inchiesta “Olimpia”, in conseguenza della quale aveva riportato un condanna a 6 anni di reclusione sempre per associazione a deliquere di stampo mafioso.
Più recente e in particolare nel 2017, invece, l’uomo a rimediato una condanna ad oltre 13 anni di reclusione nell’ambito del processo scaturito dall’indagine “Il Principe”. I giudici lo hanno riconosciuto colpevole, insieme tra gli altri a Giovanni Maria De Stefano, per far parte di «un’associazione di tipo mafioso operante in Reggio Calabria e sull’intero territorio nazionale». (rds)
x
x