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«Alla Calabria serve una proposta aperta al futuro. E spero nei tanti che non votano»

Gli studi e i ricordi di Catanzaro. L’esperienza con “Fare Futuro” e «il collasso del ceto politico». Intervista ad Alessandro Campi. Che parla delle Regionali come occasione persa e analizza il ri…

Pubblicato il: 05/02/2020 – 12:43
«Alla Calabria serve una proposta aperta al futuro. E spero nei tanti che non votano»

di Romano Pitaro
CATANZARO
Alessandro Campi ha un curriculum fitto di  pubblicazioni  sulle trasformazioni dei sistemi democratici nel corso del Novecento.  E’ ospite di programmi culturali e talk show in cui spiega che «il rischio che si presentino situazioni e fantasmi del ventennio sono frutto di un cattivo automatismo ideologico». Lo intervistano i quotidiani e i tg nazionali  per  ricostruire quel filone di storia del pensiero definito “realismo politico”, per avere opinioni sullo psicodramma della politica italiana e sulla parabola del populismo o su temi, autori e movimenti politici della destra italiana ed europea. L’altro giorno è stato insignito dell’onorificenza di Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana per il suo impegno nel campo della ricerca e della cultura. Il riconoscimento gli è stato conferito “motu proprio” dal capo dello Stato Sergio Mattarella e verrà ufficializzato in occasione della festa della Repubblica del 2 giugno. È ordinario di scienza politica e relazioni internazionali all’Università di Perugia, allievo di Gianfranco Miglio ed Ernesto Galli della Loggia. Nel 2010 ha fondato il trimestrale “Rivista di Politica” edito da Rubbettino ed è editorialista dei quotidiani “Il Messaggero” e “Il Mattino”. Come studioso ha dedicato particolare impegno alla figura di Niccolò Machiavelli: è stato l’ideatore della “Enciclopedia Machiavelli” pubblicata dalla Treccani e ha organizzato le grandi mostre svoltesi a Roma, New York, Washington e Seoul in occasione dei cinquecento anni del “Principe”. I suoi libri sono stati pubblicati in inglese, francese, polacco e spagnolo. Aggiungiamo che Alessandro Campi, 59 anni,  vive a Perugia ma è nato in Calabria. Figlio di un appuntato dei carabinieri, dopo la maturità scientifica è andato via da Catanzaro, ma ricorda «con affetto» i tanti amici di quei tempi e le sue prime «esaltanti esperienze» ai microfoni di Radio 104 Catanzaro che, nella seconda metà degli anni 70, da via Filanda diffondeva voci e suoni nell’etere. A Catanzaro ritorna, «quando mi invitano alla presentazione di libri o a dibattiti culturali». Nitidi i suoi ricordi: «Una città urbanisticamente sgradevole, cresciuta negli anni in modo disordinato, ma viva e schietta sul piano umano e vivace sul piano intellettuale, una città a tratti indolente e sonnolenta, ma autentica e orgogliosa. Una città con un tratto a suo modo signorile, con una borghesia professionale culturalmente curiosa e un popolo  molto attaccato alle sue tradizioni». La ricorda priva di gerarchie sociali: «Una città molto egualitaria. Indimenticabili per me i luoghi simbolo della città: Villa Trieste, attaccata alla caserma dei carabinieri dove mio padre lavorava e dove da bambino mi recavo spessissimo, e i giardinetti di San Leonardo, dove ho ciondolato per anni insieme ai miei amici e compagni di studio». A Catanzaro ha scritto i suoi primi articoli: «Rammento con piacere la stagione delle radio libere e quella delle mie prime esercitazioni giornalistiche, con OggiSud fondata e diretta da Nino Doldo, e con Beppe Soluri. Ho mantenuto assai vivo il ricordo dei docenti che ho incontrato negli anni trascorsi al Liceo Siciliani. In particolare Gennaro Marzullo, mio professore di filosofia: non condivideva le mie scelte politiche ma le rispettava e incoraggiava. Fu lui a consigliarmi la lettura di alcuni autori di destra che, a suo giudizio, mi avrebbero culturalmente arricchito: Giuseppe Prezzolini e Augusto Del Noce. La mia formazione politico-culturale è nata con quelle letture».
Professore, dopo l’esperienza da direttore scientifico della Fondazione “FareFuturo” di Gianfranco Fini s’intuiva che lei potesse interpretare un ruolo politico attivo nella ricostruzione del centrodestra italiano, invece non ha lasciato i suoi impegni accademici. Forse perché la politica continua ad essere roba per politici di professione?
«Ho sempre preferito evitare l’impegno politico diretto, per mantenermi libero nei giudizi. L’attività politica ha tempi che non sono compatibili con lo studio e la ricerca. Soprattutto richiede un’attitudine che a me manca: la capacità di ascoltare tutto e tutti, di stringere migliaia di mani, di dire spesso bugie, di parlare di tutto. Ho grande rispetto per chi fa politica seriamente. Semplicemente non ne sarei capace».
Dove va il Paese? Si muove a tentoni o dispone di una classe dirigente che ha obiettivi ben definiti?
«Il collasso del ceto politico è evidente. Regge per fortuna bene parte consistente del nostro apparato tecnico-burocratico, che è poi il sistema nervoso di una Stato e ciò che gli consente di vivere. Se dovessero cedere anche questi apparati, purtroppo sempre più infiltrati dalla (cattiva) politica, l’Italia rischierebbe davvero di implodere».
Crede che l’operazione di Salvini di radicare la Lega anche  al Sud possa avere successo? In Calabria si riteneva che il 26 gennaio potesse fare man bassa nel bacino maggioritario del partito del “non voto”. Ha preso il 12 per cento, che non è poco, ma non ha sfondato…
«I partiti hanno un dna, come le persone. Quello della Lega è nordista e difficilmente Salvini riuscirà a cambiarlo. Detto questo, al Sud non serve un partito o un leader che ne interpreti solo le frustrazioni o i risentimenti: vale per Salvini come per il M5S. Nemmeno servono le solite ricette assistenzialistiche. Ci vuole qualcuno capace di fare un proposta aperta al futuro. Di avanzare un’idea concreta di rilancio, in primis sul lato economico».
Differenze tra il voto del 26 gennaio in Emilia Romagna e in Calabria?
«Erano obiettivamente diverse la posta in gioco politica (vincendo la Lega rischiava di implodere il Pd e il governo di cadere) e il rilievo economico dei due territori. Questo spiega il relativo (ma pur sempre colpevole) silenzio dei media nazionali sul voto calabrese. Un’occasione persa per parlare, fuori dai suoi confini, dei problemi di questa regione».
Qual è il suo punto di vista sul Mezzogiorno?
«Non mi nascondo i problemi e i ritardi, a partire da quelli infrastrutturali. Guardavo nei giorni scorsi un grafico sulla distribuzione dell’alta velocità in Italia. Il divario balzava agli occhi in modo impressionante: tutti gli investimenti ferroviari in questo settore si sono concentrati da Roma in su. C’è per il Sud un problema di isolamento territoriale e geografico. Tuttavia, la vera questione di questa parte d’Italia mi sembra la spregiudicatezza dei suoi gruppi dirigenti, non solo politici. Trasformismo e affarismo sono il male cronico del Sud. Ho speranza, nel caso della Calabria, in quel quasi 60 per cento di cittadini che non votano. Il giorno in cui dovessero uscire dal loro rassegnato isolamento, perché qualcuno avanzerà finalmente un proposta politica decente e non solo giocata sulla rabbia o sulle solite promesse da mercanti, costoro potrebbero fare la differenza».

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