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Delitto Ruffolo, l'imputato si difende: «Mai scappato in Colombia»

Durante il processo in Corte d’Assise di Cosenza, Massimo D’Elia ha replicato alla versione dei fatti finita nel fascicolo d’indagine. Alla base dell’omicidio si presume ci siano attriti personali …

Pubblicato il: 12/02/2020 – 15:41
Delitto Ruffolo, l'imputato si difende: «Mai scappato in Colombia»

di Michele Presta
COSENZA
Massimo D’Elia dalla casa circondariale di Lanciano professa la sua innocenza, prova a smontare l’impianto accusatorio della Dda di Catanzaro che lo ha imputato dell’omicidio di Giuseppe Ruffolo e contesta quelle che a suo avviso sono falle d’indagine suffragate da «fonti di prova scelte in modo da favorire una parte». L’imputato del delitto consumato a colpi di pistola lungo via degli Stadi nel settembre del 2011 contesta le deposizioni dei testi operatori di polizia che nell’ultima udienza, rispondendo alle domande del pm Vito Valerio, hanno ricostruito le fasi d’indagine spiegando alla Corte d’Assise di Cosenza presieduta da Paola Lucente, tutti gli elementi investigativi che hanno permesso di iscrivere inizialmente D’Elia, Roberto Porcaro e Antonio Illuminato nel registro degli indagati. Il gup distrettuale ha rinviato a giudizio soltanto il primo quale esecutore materiale. Tutto il carico probatorio messo insieme dalla sezione di polizia giudiziaria delegata dalla Dda di Catanzaro, insieme ai colleghi della squadra mobile di Cosenza, è stato illustrato ai giudici togati e popolari dall’ispettore Lucia Saturno. L’ispettore nel corso della sua deposizione ha ripercorso le fasi d’indagine dall’apertura del fascicolo fino al raffronto delle dichiarazione dei collaboratori di giustizia che per il delitto rappresentano l’architrave portante dell’indagine. I colpi di pistola hanno raggiunto Giuseppe Ruffolo mentre percorreva via degli Stadi, non è morto sul colpo, riuscendo ad uscire dall’auto ha fermato un passante che lo ha portato al pronto soccorso dove però i tentativi di salvargli la vita sono stati vani. L’auto di Ruffolo, come ricostruito nelle indagini, sarebbe stata raggiunta da uno scooter a bordo del quale si trovava l’assassino. Sei bossoli in tutto recuperati appena giunta sul posto la polizia scientifica. «Il motorino che poi abbiamo ritrovato completamente distrutto dalle fiamme – racconta l’ispettore – era di proprietà di Francesco Tricò, anche se veniva usato da Angelo Frontino che gli aveva proposto di acquistarlo ma noi ci siamo accertati anche come ad usarlo fosse Massimiliano D’Elia». Il movente dell’omicidio sarebbe duplice, da una parte i rancori personali scaturiti tra D’Elia e Ruffolo a seguito di una rissa al B-Side nella quale l’imputato venne ferito a colpi d’arma da fuoco da Andrea Molinari (condannato in via definitiva) che si trovava in compagnia di Ruffolo che nel corso del processo ne testimoniò l’innocenza, poi uno legato a motivi strettamente ’ndranghetistici. Giuseppe Ruffolo svolgeva attività usuraia e questo non sarebbe andato bene a Roberto Porcaro che saputa dell’intenzione di Massimiliano D’Elia avrebbe acconsentito all’esecuzione.
IL GIALLO DELLA FUGA IN COLOMBIA «D’Elia si è reso irreperibile e in base alle nostre indagini abbiamo intuito come si fosse nascosto in Colombia anche perché c’è un pagamento considerevole nei confronti di una persone che avrebbe potuto nasconderlo in America Latina». Di questo è convinta la polizia e di questo Massimiliano D’Elia non riesce a darsi pace. «Avete acquisito il passaporto?» chiede l’avvocato Fiorella Bozzarello difensore dell’imputato insieme al collega Paolo Pisani. «No» risponde l’ispettore. «Avete sentito il consolato colombiano?» aggiunge, «no» risponde ancora l’operatore di polizia. «Non sono mai andato in Colombia – dice D’Elia rendendo dichiarazioni spontanee – dieci giorni dopo l’omicidio sono stato convocato in modo informale in Questura, poi l’8 ottobre i carabinieri mi hanno perquisito la casa e portato in caserma dove mi hanno fotografato e preso le impronte digitali prima di rilasciarmi, di quell’episodio non fosse stato per i miei avvocati non ci sarebbe stata traccia. Il 14 ottobre invece sono stato convocato dai carabinieri di Carolei che mi hanno notificato un obbligo di recarmi al Sert per tutto il mese di novembre, cosa che ho fatto. Non ho nulla da temere, non sono mai scappato».
LA PERIZIA BALISTICA E LA TUTA DA LAVORO Spiegando il lavoro svolto con le dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia, l’ispettore Saturno ha riferito come l’imbeccata data da Luciano Impieri circa le armi aveva dato esito negativo. «Abbiamo ritrovato le armi a casa di Antonio Illuminato, ma dopo aver ottenuto i risultati dal nostro centro di Reggio Calabria, non abbiamo avuto riscontro che si trattasse della stessa utilizzata dal delitto». D’Elia, negli anni in cui avvenne l’omicidio lavorava in una cooperativa che curava il cimitero di Cosenza. La polizia agli atti ha repertato come l’esecutore abbia potuto indossare una tuta fosforescente molto simile a quelle in dotazione agli operatori della nettezza urbana. Sul punto la difesa dell’imputato ha evidenziato che per quel tipo di lavoro non erano date tute di quel tipo e lo stesso D’Elia aggiunge: «Io mi occupavo della tumulazione, non ho mai indossato tute di quel genere». Nel corso dell’udienza sono stati ascoltati anche il sostituto commissario Angelo Falsetti e l’assistente Elio Bozzo, del reparto di polizia scientifica. Entrambi hanno riferito sulle fasi di recupero del motociclo usato per il delitto e poi dato alla fiamme in prossimità del vallone di Rovito. La corte ha acquisito la perizia dei medici legali che hanno eseguito l’autopsia sul corpo di Ruffolo e hanno dato incarico al perito per effettuare le trascrizioni di alcune intercettazioni. Le parti civili, sono rappresentate dagli avvocati Filippo Cinnante, Paolo Guadagnolo, Roberto Borrelli e Giuseppe Malvasi. (m.presta@corrierecal.it)

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