di Giorgio Curcio
ROMA «Una mafia autoctona ma con forti legami con la Calabria». Ne sono convinti i due pm Giovanni Musarò e Fabrizio Tucci. Nel corso del processo contro le cosche della ‘ndrangheta attive a Viterbo, per circa 8 ore hanno delineato i vincoli di stampo mafioso che legavano capi e gregari nell’attività criminale del gruppo. Sono 135 gli anni di carcere chiesti: pene pesantissime, dunque, nonostante lo sconto previsto per il rito abbreviato.
IL BLITZ A poco più di un anno dal blitz dello scorso 25 gennaio 2019, dunque, sta per chiudersi il processo per 10 dei 13 imputati. Calabresi e albanesi che per almeno due anni hanno messo in ginocchio imprenditori e cittadini locali con richieste e atti intimidatori, incendi e atti vandalici. «Quella che ha operato a Viterbo è una “piccola mafia” come quella che è stata riconosciuta per il clan dei Fasciani a Ostia. Attenzione, non una mafia di serie B – racconta il magistrato – ma una mafia violenta, pericolosa che senza l’intervento dei carabinieri avrebbe potuto fare anche di peggio».
LE RICHIESTE Tutto gli appartenenti al gruppo criminale hanno optato per il processo con rito abbreviato, ma le richieste di condanna restano comunque pesantissime. Rito ordinario, invece, per gli altri tre che non sono considerati parte del gruppo. Ammonta a vent’anni (e 20mila euro di multa) la condanna chiesta per i due “capi”, Giuseppe “Peppino” Trovato e Ismail “Ermal” Rebeshi. Per i fratelli Spartak “Ricmond” Patozi e Shkelzen “Zen” Patozi chiesti 16 e 14 anni. 10 anni 8 mesi a Gazmir “Gas” Gurguri; 12 anni e 4 mesi a Luigi “Gigi” Forieri; 10 anni e 8 mesi a Fouzia “Sofia” Oufir; 14 anni a Gabriele “Gamberone” Laezza; 9 anni e 4 mesi a Martina Guadagno. Più le multe da decine di migliaia di euro e 3 anni di libertà vigilanza dopo la pena. Sconto minimo di pena previsto solo per Sokol “Codino” Dervishi che ha deciso di pentirsi e di collaborare e per il quale sono stati chiesti 8 anni di reclusione.
IL GRUPPO CRIMINALE Una piccola organizzazione criminale, dunque, ma potente e pericolosa. Nelle informative, ad esempio, si fa riferimento ad una presunta guerra tra bande che si sarebbe consumata che tra il gruppo criminale e quello dei nomadi, finalizzata proprio al controllo del territorio viterbese, sul quale Trovato, Rebeshi e i complici volevano imporre il proprio predominio. «Era noto a tutti – hanno detto i due pm – che Giuseppe Trovato fosse uno che ‘risolveva i problemi’ e che Ismail Rebeshi organizzasse il ‘come’. Trovato aveva la metodologia mutuata dalla ‘ndrangheta, Rebeshi coi suoi connazionali erano il braccio violento». Trovato, originario di Lamezia Terme, era arrivato nel Lazio una quindicina di anni fa, mantenendo i legami con la cosca Giampà (qui la notizia)
IL PROCESSO Il prossimo 20 marzo e il 3 aprile continuerà il processo a Roma con rito abbreviato. Il 9 marzo, invece, toccherà al parrucchiere trentenne Manuel Pecci, l’artigiano Emanuele “Lele” Erasmi e l’unico romeno, Ionel Pavel, presentarsi davanti al collegio del Tribunale di Viterbo. (redazione@corrierecal.it)
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