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«Perché ha vinto (finora) la sanità business»

di Emiliano Morrone*

Pubblicato il: 18/02/2020 – 12:36
«Perché ha vinto (finora) la sanità business»

In tema di emigrazione sanitaria è apparsa lo scorso 16 febbraio, sul Corriere della Calabria, un’intervista di Pablo Petrasso a Pasquale Mastroroberto, direttore della Cardiochirurgia del policlinico universitario catanzarese e docente nell’ateneo collegato. Mi pare interessante, anche per alimentare un dibattito aperto, fornire sull’argomento un punto di vista diverso, cioè quello di un osservatore – per mestiere – della “struttura” della sanità calabrese, che peraltro in famiglia ha vissuto a lungo il rituale dei «viaggi della speranza» e visto «da vicino» gli ospedali del Nord e calabresi.
Mastroroberto ha detto che se suoi colleghi «consigliano ai pazienti di rivolgersi a strutture extraregionali anche per esami banali, allora vuol dire che il problema, oltre che politico, è anche culturale». La questione è a mio avviso più ampia.
Ovunque esistono grandi interessi in ambito sanitario, diventato un mercato rigoglioso a causa, intanto, dell’aziendalizzazione del sistema indotta dal Trattato di Maastricht. Oggi la sanità è legata alla logica (capitalistica) del business, sicché il vizio originario sta a monte: nella scelta di razionalizzare – si legga ridurre – la spesa pubblica per via della diminuzione delle risorse provocata dall’accordo di Maastricht e poi dal Fiscal compact, che a mia memoria soltanto il giurista Giuseppe Guarino, già ministro, definì illegittimo.
Le aziende pubbliche dei Servizi sanitari regionali sono tenute a tutelare il diritto alla salute. Perciò per loro natura non generano profitti, se non in termini di prevenzione e di qualità della vita, di cure efficaci e quindi di abbassamento dei costi sociali per Stato e Regioni.
Purtroppo, escluse poche, marginali eccezioni, l’emigrazione sanitaria non viene correlata alla scarsa disponibilità di cassa da parte della Regione. Anzi, chi la inquadra in tale ottica subisce varie forme di vilipendio che stroncano sul nascere ogni tentativo di confronto.
La ricerca ossessiva dei numeri, del guadagno, delle proiezioni economiche, dell’impennata dei ricavi, è fisiologica in un sistema culturale e politico che ha smesso di pensare, abbagliato dall’obiettivo della ricchezza materiale, aziendale, soggettiva. La sanità privata prospera dove manca quella pubblica, e dove tra potere ed affari si crea un rapporto di interdipendenza, simbiosi, vantaggio reciproco. Nel merito gli esempi sono tanti e riguardano lo Stivale per intero, con ogni differenza di metodo e sostanza da un estremo all’altro del Paese.
In più, la sanità della Calabria – e delle altre regioni meridionali – risente di un finanziamento statale inadeguato rispetto alle necessità del territorio, della popolazione, dei malati.
Questo è fatto noto quanto eluso, e forse archiviato dalla quasi totalità della politica, la quale accetta che il disavanzo annuo e l’indebitamento del settore si giustifichino a senso unico con la vulgata dell’incompetenza dirigenziale, della ‘ndrangheta onnipervasiva e del “costume” calabrese. Corollario di questo dogma insindacabile è che per sistemare i conti e ottenere risultati occorrano commissari, forze dell’ordine, misure speciali, protocolli mirati, aiuti settentrionali e supervisori adusi agli algoritmi delle leggi di bilancio e della burocrazia romana. Non è un caso che il commissario ad acta sia un ex generale dei carabinieri, che il capo della Programmazione sanitaria nazionale e la commissaria dell’Asp di Cosenza siano commercialisti, che il decreto Calabria abbia rafforzato i controlli sulle uscite prevedendo il concorso di apparati del rigore statale e presentandolo come necessario, prezioso, risolutivo.
La verità, che resta nell’ombra come in ogni delitto perfetto, è che le perdite di bilancio delle aziende pubbliche della sanità nostrana dipendono anzitutto dalla ripartizione vigente del Fondo sanitario e in misura ben inferiore da gestioni “a cuor leggero” di appalti, contratti e unità operative.
Se restiamo nella prospettiva della sanità come azienda, non cogliamo l’essenza delle cose: la salute non ha prezzo, e uno Stato realmente moderno non può consentire che i ricchi possano permettersela e i poveri rifiutino, come accade in Calabria, perfino di sottoporsi a visite di routine.
In qualsivoglia contesto di deprivazione aumentano gli spazi per le forzature amministrative, le violazioni, il clientelismo, i patti sotto banco, i contenziosi “pilotati” o indirizzati verso l’utile privato. Si tratta di problemi che non si superano con i regimi straordinari, che indicatori alla mano hanno dimostrato di non avere impatto sui livelli dei servizi sanitari, i quali rischiano, al contrario, di subire nuove e più fatali amputazioni in virtù dell’applicazione del dissesto finanziario agli enti del Ssr.
L’emigrazione sanitaria, come hanno di recente esternato i primari delle tre Cardiochirurgie calabresi, Mastroroberto, Pasquale Fratto e Daniele Maselli, è per molti versi stimolata dal marketing di operatori locali e forestieri che promuovono l’affidabilità ed eccellenza di reparti del Centro-Nord. La prassi è conosciuta: ha il linguaggio, i toni e le seduzioni della propaganda, e attecchisce davanti al bisogno di risposte urgenti che spesso il Ssr calabrese non dà per disorganizzazione, carenze di personale o insufficiente capacità di comunicare le caratteristiche, i pregi della propria offerta.
Va anche precisato che in Calabria la meritocrazia è ancora uno spettro vagante, nei luoghi della sanità pubblica. Ci sono tanti professionisti sottovalutati e costretti a lavorare in condizioni difficili, se non impossibili. Come il “povero” Attilio Renzulli, scomparso nell’ottobre del 2016, che al policlinico universitario di Catanzaro impiantò un dispositivo di assistenza ventricolare durato oltre 5 anni, un record assoluto. Il cardiochirurgo denunciò decessi per sepsi batterica e, grazie a una battaglia di parlamentari del Movimento 5 Stelle, la Cardiochirurgia pubblica catanzarese ha realizzato la terapia intensiva dedicata ai propri pazienti, che prima non esisteva.
Se si vuole convergere per rilanciare la sanità della Calabria, è indispensabile rivedere il criterio di ripartizione del Fondo sanitario, modificarlo sulla base dei dati obiettivi di morbilità e co-morbilità. Qui la politica deve uscire dal sonno profondo che l’accompagna, dalla subordinazione agli schemi consolidati: dalla sudditanza meccanica rispetto agli equilibri di partito e gruppo parlamentare, dall’accettazione passiva della migrazione sanitaria da Sud verso Nord. E deve iniziare a capire che la formazione del personale medico e paramedico è uno degli elementi su cui si misura la propria lungimiranza. Perciò deve affrontare con cognizione l’eterna, sospesa faccenda dell’accreditamento delle scuole di specializzazione dell’Università di Catanzaro, da cui dipende molto il futuro della sanità calabrese. In proposito è essenziale sciogliere due nodi: l’«integrazione» – finora virtuale – dell’Aou Mater Domini e dell’Ao Pugliese-Ciaccio e l’impellenza di dotare la prima del Pronto soccorso.

*giornalista

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