di Alessia Truzzolillo
REGGIO CALABRIA Una tavolata con la presenza di alcuni soggetti di vertice della famiglia mafiosa Alvaro di Sinopoli. Tra questi Natale Lupoi, 44 anni, detto “Beccaccia”, genero del capo Carmine Alvaro classe 1953 detto “u cuvertuni”, un ruolo di assoluto vertice all’interno della cosca di Sinopoli. Al momento della distribuzione dei posti a tavola Lupoi invita Salvatore Alvaro, detto “Turi u pajecu”, 55 anni, a occupare il posto di capo-tavola, tanto in ragione del grado di ‘ndrangheta rivestito quanto per la maggiore anzianità. Alvaro, però, rifiuta e cede il suo posto a “compare Cosimo”. Lo racconta lo stesso Lupoi, un po’ storcendo il naso perché quell’onore andava al più anziano e compare Cosimo non doveva accettare. «Che il compare Cosimo avesse preso il posto del Lupoi veniva aspramente criticato dagli interlocutori, che appellavano il Cosimo come uno stupido, in quanto mai avrebbe dovuto sedersi a capotavola evidentemente in ragione della maggiore caratura ‘ndranghetistica del Lupoi e quantomeno della sua maggiore anzianità. E anche se il Lupoi aveva invitato compare Cosimo a sedersi a capotavola, quel posto quest’ultimo avrebbe dovuto lasciarlo libero in segno di rispetto, al più mettendo una giacca sulla sedia», annotano gli inquirenti che stanno monitorando i movimenti delle cosche di Sant’Eufemia d’Aspromonte. Movimenti che a gennaio 2018, e nei mesi seguenti, sono tellurici e potrebbero portare a una vera e propria faida. Ma le faide sono sempre intervallate, precedute e spesso ammortizzate da incontri, momenti conviviali, cene, salotti. I brogliacci dell’operazione Eyphemos – svolta dagli investigatori della Squadra mobile di Reggio Calabria e del Commissariato di Palmi, sotto le direttive della Dda di Reggio Calabria – sono un vero e proprio compendio sulla ritualità ‘ndranghetista. Le regole antiche si impastano con gli interessi moderni e il bisogno di armare il proprio braccio per meglio controllare il territorio di Sant’Eufemia d’Aspromonte dove esiste – secondo le indagini – una struttura associativa di ‘ndrangheta che opera funzionalmente alle dipendenze del locale di ‘ndrangheta di Sinopoli e territori limitrofi, facente capo alla potente cosca Alvaro.
Il 31 gennaio 2018 si spende una delle tante riunioni che gli investigatori monitorano: tra Domenico Laurendi, alias “Rocchellina”, 50 anni, a capo di una delle frange mafiose della locale di Sant’Eufemia d’Aspromonte e Natale Lupoi.
FUOCO SOTTO CENERE Il momento è teso. Domenico Laurendi è in piena contrapposizione con “u diavulu” che poi altri non è che il vicesindaco di Sant’Eufemia d’Aspromonte, Cosimo Idà, che aveva eseguito delle affiliazioni all’insaputa dei vertici del locale e quindi in violazione delle regole ‘ndranghetistiche. Su questo fronte gli animi sono divisi: esiste una frangia che vorrebbe regolarizzare questi “battesimi” impropri e una, trainata da Domenico Laurendi, che li contrasta. E se proprio non fosse riuscita a impedirne la regolarizzazione avrebbe preteso dai maggiorenti l’ampliamento del proprio organico e il pareggiamento dei conti, ricorrendo a “battesimi di ‘ndrangheta”. Perché più forte è chi ha più affiliati, più picciotti al proprio comando. Le riunioni si susseguono per quasi un anno. Domenico Laurendi, sostenuto dai suoi più vicini sodali, come Antonino Gagliostro, Antonio Crea, Vincenzo Carbone, Saverio Napoli, officiò alcuni “battezzi” e ne programmò altri, pretendendo l’assenso anche successivo da parte degli altri primari del locale, al fine di restituire equilibrio tra le due frange mafiose, fino a giungere a meditare una scelta ancora più dirompente, come la creazione di un “banco nuovo” ossia il rimescolamento delle cariche con equa ripartizione tra le due anime interne della cosca. In mezzo c’è il rito, gli incontri, una partita politica carica di nitroglicerina che a stento non è esplosa.
«I MIEI FIGLI NO» Laurendi vuole nuovi picciotti da battezzare ma incontra anche il “no” dei propri stessi sodali, come Saverio Napoli che era contrario all’affiliazione formale dei propri figli per timore di una loro esposizione personale tanto più che non nutriva alcuna fiducia negli altri appartenenti alla consorteria, facendo tra l’altro i nomi di tali “Bruno” e “Pasquale” ed invitava il suo interlocutore, Antonino Gagliostro, ad essere accorto: «I miei figli di queste cose qua, non ne devono sapere. […] Non esiste mio figlio! Ma che cazzo dici … Antonio! Con tutto il rispetto per te… se mi inguaio… mi inguaio io, non i miei figli! Ma che scherziamo e… bello mio, vedi che qua bisogna camminare con i piedi di piombo!».
IL BANCO NUOVO Visto che tra i due litiganti, “diavulu” e “Rocchellina”, non si trovava una soluzione, nella frangia di Laurendi, detto Rocchellina, si porta avanti l’ipotesi di creare il cosiddetto “banco nuovo” che avrebbe comportato una modificazione e redistribuzione delle cariche. «questi se ne devono andare … e se ne vanno», ribatteva Laurendi. La voce fuori dal coro era quella di Saverio Napoli «che, manifestando sfiducia verso la riservatezza di molti dei componenti del locale ‘ndranghetistico, non solo era contrario all’affiliazione formale dei propri figli, ma anche alla modifica delle cariche medesime e finanche non condivideva il proposito di attivarsi per reperire nuove giovani leve», annotano gli investigatori. La proposta di maggioranza resta sempre quella di cambiare le “cariche” ed ampliare “l’organico” della frangia mafiosa facente capo a Domenico Laurendi per tentare di controbilanciare il maggiore potere sulla carta conseguito dalla frangia opposta con i nuovi battesimi col rito ‘ndranghetista.
LE REGOLE Il 6 febbraio 2018, si registra un lungo dialogo tra Domenico Laurendi, Antonino Gagliostro, Antonio Crea e Vincenzo Carbone alias Ceo. Domenico Laurendi ha in mente di creare un locale di ‘ndrangheta a Santa Eufemia di Aspromonte, col consenso degli Alvaro, autonomo rispetto a quello di Sinopoli. Si discorre di quelle che sono le regole da seguire. «Ogni “mammasantissima” che c’è può cercare di aprire il locale, si prende i sette comuni più vicini, li prende, li porta ed apre il locale…», dice Laurendi.
NUOVE RECLUTE Se Saverio Napoli era contrario all’affiliazione dei propri figli, Giovanni Crea ci tiene. Laurendi gli assicura che avrebbe provveduto lui stesso ad affiliare i giovani Emanule Crea, figlio di Giovanni, e il nipote Antonino Borgia che pure risiedeva al Nord Italia e che aveva più volte assicurato allo zio la sua disponibilità a venire in Calabria con un volo aereo solo per sottoporsi al rito di affiliazione: «Zio Gianni, quando mi telefoni io mi metto sull’aereo e vengo, però due giorni posso stare». Ma Laurendi si propone per una trasferta al Nord per battezzare il picciotto. Unico ostacolo all’evento potevano essere i rapporti conflittuali tra Giovanni Crea e il fratello Antonio. Laurendi è chiaro: non avrebbe proceduto al battesimo solo se Antonio Crea avesse opposto il veto – «se tu mi dici no, io non faccio». Ma Antonio Crea non oppone veti. Vuole solo avere prima un dialogo col battezzando – «però due paroline gliele devo dire in qualità di zio più grande, o no?» – per fargli comprendere il peso specifico che lui e il fratello Giuseppe Crea possedevano nel sodalizio mafioso. Le nuove leve sono un bene prezioso, contese sul piatto della bilancia tra chi combatte per salvarle da una vita di ‘ndrangheta e chi le arruola tra le fila delle consorterie.
Tanto che Vincenzo Carbone, alias Ceo, 36 anni, parlando di affiliazioni asserisce che erano in numero di gran lunga superiore coloro che desideravano entrare nella ‘ndrangheta: «Se li conto bene vedi che ce ne sono assai ancora». A quanto pare, esce fuori dai discorsi, numerosi giovani da tempo avevano fatto richiesta e attendevano formale convocazione per essere affiliati.
«MIO FIGLIO DEVE USCIRE DELINQUENTE» Un’altro che spinge per una vita da ‘ndranghetista per il proprio figlio è Giuseppe Speranza, detto “u longu”, sodale di Domenico Laurendi. Il nove agosto 2018 si trova a cena dal suo capo insieme alla propria famiglia. In questa occasione racconta di un diverbio avuto con la nonna della moglie che aveva osato esprimere la sua ammirazione verso gli appartenenti all’Arma, avendo tra l’altro dei nipoti arruolati. Speranza non ci vede più. Grida contro l’anziana: «Messi in una camera a gas, tutti gli sbirri!». Ma, soprattutto non vuole più sentire espressioni di ammirazione verso gli appartenenti alle Forze Armate di fronte a suo figlio, per il quale aveva programmato una vita da delinquente e che, se solo avesse intrapreso una strada diversa, non avrebbe esitato ad ucciderlo. «Gli ho detto io – imparate una cosa del genere a mio figlio… che mio figlio – gli ho detto io – … delinquente deve uscire […] che sbirro non lo voglio sicuro! -gli ho detto – Che lo ammazzo!». Le ingiurie contro gli uomini dello Stato non si fermano. Laurendi, per esempio, afferma che coloro che che fanno il concorso come pubblico ministero sono i più stupidi.
INGIURIE AGLI UOMINI E AI MORTI DI STATO Ad un certo punto verso mezzanotte, la moglie di Speranza nota passare in strada il maresciallo dei Carabinieri Andrea Marino (all’epoca Comandante della Stazione Carabinieri di Scilla, già in servizio nelle Stazioni Carabinieri di Sinopoli e Oppido Mamertina), e invita a prendere la carabina e darla a suo marito, perché la utilizzasse contro il militare. Inizia un gioco tra il serio e faceto per aprire il fuoco contro il militare. Lo stesso uomo – commentano i commensali – che bloccò la processione a Oppido Mamertina perché chi portava la statua ebbe a “fare un inchino” sotto l’abitazione del boss Giuseppe Mazzagatti classe 1932, all’epoca in stato di detenzione domiciliare. Ma le ingiurie contro uomini e morti di Stato non finiscono.
Il discorso passa sul maresciallo Pasquale Azzolina (ucciso in un agguato in località Ponte Crasta di Sant’Eufemia d’Aspromonte il 17 giugno 1996). Ne offendono la memoria («quel cornuto»).
Criticano gli abitanti del posto che avevano solidarizzato con i congiunti del militare ucciso, mostrando dispiacere per la sua morte, tanto da osservare il lutto cittadino proclamato con la chiusura delle attività imprenditoriali.
Domenico Laurendi, invece, «si vantava di essersi distinto per non essere andato né al funerale e per aver mantenuto il negozio aperto, tanto che la posizione assunta fu all’epoca commentata dai giornali e da un libro», scrivono gli inquirenti. «E non è che sono andato, io me ne fottevo di loro – dice spavaldo –, ma c’era un libro in un posto, non so chi all’epoca me lo aveva mostrato, che hanno scritto le cose». Riunioni di ‘ndrangheta, compendio di una cultura mafiosa a tratti arcaica, in fermento e in combutta, pronta ad allevare figli da consegnare alla morte o al carcere. (a.truzzolillo@corrierecal.it)
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