C’è chi ancora, nonostante tutto, contro ogni evidenza predica il Verbo dei confini, dei muri, dei recinti, delle separazioni. Il confine però, divide ciò che per sua stessa natura nasce al contrario per stare unito, il genere umano. Dietro la retorica dei confini, si costruisce dunque l’arma della paura, quella ancor più contagiosa del nemico alle porte, degli stranieri che portano malattie. E poi un giorno, un giorno scopri che ha tutt’altro volto il nemico, la malattia, finanche la stessa paura, perché ti guardi allo specchio e non sai più se oggi può toccare a te di essere un nemico alle porte di qualcun altro.
Hai quasi paura ad uscire, perché il cecchino che può ammazzarti non è nascosto in un palazzo, come succede nei luoghi di guerra ma in una stretta di mano di un tuo amico. Ecco, la psicosi ci ha rubato la ragione, il buon senso e persino l’amore per gli altri. Prendiamo sempre più le distanze dai nostri amici che inconsciamente o forse no, iniziamo a selezionare tra quelli che possono essere a maggiore rischio, riscoprendoci ancora una volta barbaramente razzisti. Perché pensiamo che il più povero, il più fragile, l’ultimo possa essere il primo a poterci contagiare. Quanta arrogante stupidità, ma come poteva essere altrimenti se siamo un popolo che osanniamo ancora la nostra superiorità anche genetica. Ricordate a questo proposito le parole del governatore Fontana? Di colpo tutti sembrano essersene dimenticati.
Ti guardi allo specchio, e cerchi allora cosa ha di sbagliato il colore bianco della tua pelle, perché decine e decine di Stati chiudono a noi i loro confini, lo spazio aereo, il loro suolo. Si, perché un giorno ti svegli e leggi il bollettino di una guerra combattuta con altri armi, quella del contagio del virus che indigna meno delle armi, che lascia altro rosso dietro di se, non quello del sangue dei bambini siriani, ma quello delle floride ed opulente zone rosse. Ed allora senti precipitare tutte le certezze che avevi costruito poggiate su pregiudizi e stereotipi che di colpo sono venute giù come castelli di sabbia. Sì, quella certezza di essere bianco, in ottima salute, al riparo da quell’orda di barbari e barbarie fuori dal tuo mondo poiché protetti dalla retorica dei confini sacri, inviolabili e poi perché figli ed eredi della gloriosa stirpe italiana.
Ed invece vedi, che all’interno di quello che doveva essere la tua Patria, i patrioti si muovono in preda al panico, scappano da regole che dovrebbero osservare per legge. Quella legge che invocano, gridano che i migranti che vengono qui devono rispettare senza se e senza ma. Ed invece quanto tocca a loro, a noi, non la rispettiamo affatto la legge e pur di pensare di metterci in salvo mettiamo in pericolo la vita degli altri senza pensarci un solo attimo. Non sto dando giudizi, ma non possiamo renderci conto di come sia una cosa blaterare per anni su gli altri, un’altra di contro quanto si tratta di noi. È bastato un attimo per essere come gli altri, perché siamo identici agli altri e non superiori. Siam in sola parola esseri umani e come tali facciamo prevalere l’istinto animale ancorché quello umano di scappare per tentare di raggiungere quei luoghi dove possiamo mettere in salvo la nostra vita, ovvero approdare lì dove ci sono le condizioni minime di sopravvivenza della propria specie. Emigrare è dunque l’anagramma di amare. Spero che questo orrendo periodo che sta attraversando l’Italia possa tra le atre cose farci imparare almeno questo. Consegnarci il senso di finitudine che l’uomo occidentale ha perso da tempo. Ogni cosa è destinata ad essere caduca se cresce e vive separata dagli altri. Lo dice la natura.
*ricercatore e studioso dei fenomeni migratori
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