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God save the Queen. E salvi anche gli italiani d'Inghilterra

Il Regno Unito si è mosso con ritardo e preoccupante superficialità. Tra inviti a non preoccuparsi («è solo un’influenza») e sconcertanti dichiarazioni del premier Boris Johnson. Ma ora il Coronavi…

Pubblicato il: 20/03/2020 – 21:58
God save the Queen. E salvi anche gli italiani d'Inghilterra

di Adelia Pantano
PORTSMOUTH Erano i primi giorni di febbraio quando qui in Inghilterra si iniziavano a registrare i primi casi di Coronavirus. Casi isolati e circoscritti che non hanno destato particolare preoccupazione. Erano soprattutto i giorni caldi del divorzio ufficiale dall’Unione Europea con un governo intento a stabilire i termini del negoziato e dei futuri rapporti con il resto del continente.
Poi le notizie dall’Italia. I primi contagi in Lombardia, gran parte del Nord del Paese che diventa zona rossa e la consapevolezza di un problema oramai reale. Iniziava anche a crescere la preoccupazione e la paura degli italiani residenti in Inghilterra, in contatto con i propri cari e costantemente informati su quanto avveniva nella penisola. «Don’t worry, just a flu!» era la tipica e rassicurante risposta che noi italiani ci siamo rivolgere dire nelle scorse settimane quando cercavano di spiegare cosa stava succedendo nel nostro paese.

Con il precipitare della situazione in Italia, sono stati numerosi gli italiani, soprattutto studenti, che pian piano hanno lasciato l’Inghilterra per fare rientro a casa, non solo per la preoccupazione di un blocco imminente dei trasporti ma soprattutto per l’incertezza e la superficialità con la quale il governo inglese stava affrontato la questione Coronavirus.
Prima ancora che il premier inglese Boris Johnson rilasciasse le prime, e anche sconcertanti dichiarazioni, iniziava però ad essere evidente come una parte degli inglesi avesse ben chiaro che non si trattava solo di una semplice influenza ma era qualcosa di più. Sui giornali, in tv, per strada iniziavano ad apparire i primi vademecum su come lavarsi le mani e i consigli di restare a casa se si presentavano i tipici sintomi del Coronavirus come febbre, tosse o altri problemi respiratori e di contattare il numero nazionale per l’assistenza sanitaria. L’attenzione era rivolta in particolare a chi arrivava dalle zone rosse dell’Italia o dalla Cina.
Nel frattempo era iniziata in sordina una corsa nei supermercati per fare scorta di beni considerati di prima necessità per contrastare il contagio del virus. Da più di due settimane, infatti, nei supermercati era diventato quasi impossibile trovare sapone per le mani, gel igienizzante, guanti, fazzolettini e carta igienica. Così come iniziavano a scarseggiare le scorte di paracetamolo e altri farmaci influenzali. Con la scelta di alcune aziende di iniziare a predisporre lo smart working per i propri lavoratori, la sospensione della Premier League e la chiusura di alcune università, qualcosa sembrava muoversi. Numerosi studenti stranieri, in particolare francesi, spagnoli e arabi, hanno abbandonato da un giorno all’altro i loro corsi di inglese per prendere gli ultimi aerei disponibili prima della soppressione dei collegamenti con i loro paesi.

Mentre l’Oms dichiarava il Coronavirus pandemia, in Inghilterra a regnare erano ancora incertezza e superficialità. Ne è testimonianza la decisione di non sospendere la mezza maratona di Liverpool, che ha visto migliaia di runners partecipare sabato 14 marzo o il concerto, con altrettanti miglia di spettatori, degli Stereophonics al Cardiff Motorpoint Arena. «We should absolutely go ahead», il commento di molti, «Dobbiamo andare avanti».
Sempre lo scorso sabato hanno avuto inizio una serie di conferenza stampa da parte del premier Boris Johnson. Dal primo discorso, con la criticata teoria dell’immunità di gregge e della frase shock rivolta a tutti quegli inglesi avrebbero perso i loro cari, si è passati gradualmente ad una linea che col passare dei giorni è diventata sempre più stringente. Dal suggerimento di evitare (ma non vietare) luoghi come i pub, i ristoranti, teatri, alle tanto attese dichiarazioni arrivate nel tardo pomeriggio di mercoledì di chiudere le scuole. Provvedimento al quale l’Inghilterra è arrivata in ritardo sia rispetto alla Scozia e al Galles, che avevano deciso di chiudere le scuole lunedì e sia soprattutto rispetto all’Irlanda la cui decisione era arrivata già la scorsa settimana.
Discussioni politiche a parte, con l’aggravarsi della pandemia nel resto d’Europa e i numeri dei casi in continuo aumento anche in Inghilterra, molte città inglesi hanno iniziato una lenta e graduale serrata. Tanti i negozi con cartelli fuori che annunciano la riduzione degli orari o la chiusura per mancanza di personale. Altri ancora raccomandano di non entrare se si hanno sintomo febbrile o tosse. Molti City Council hanno chiuso al pubblico musei e librerie. La corsa per accaparrarsi le ultime scorte nei supermercati non è più tanto silenziosa e intere corsie, dalla pasta, al riso, al pane, alla frutta e alla verdura sono completamente vuote. Le grandi catene di fast food, come McDonalds, rimangono aperte solo per il servizio di delivery, Starbucks e altri coffee shop sono oramai completamente vuoti. Così come vuoti sono anche i pub e i ristoranti, che continuano ad essere aperti nonostante la clientela sia oramai drasticamente ridotta. «Sarebbe meglio imporre la chiusura, stiamo ricevendo solo continue chiamate per disdire le prenotazioni di questi giorni», racconta un ristoratore italiano.
E sono proprio gli italiani ad essere maggiormente delusi dalla superficialità con la quale la politica, e una buona parte degli inglesi, ha affrontato e sta tutt’ora affrontando l’emergenza Coronavirus. In tanti, nonostante la rabbia e l’amarezza, l’angoscia e la malinconia, hanno però deciso di restare. Chi per lavoro, chi per studio e chi invece ha deciso di restare per non aggravare la già drammatica situazione in Italia e soprattutto per preservare i propri cari.
God save the Queen. E, forse adesso, anche gli italiani.

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