Il diffondersi, ma soprattutto i consistenti macabri saldi dei contagiati del coronavirus, mette in prima pagina l’istituzione delle unità speciali di continuità assistenziale, che sarebbe dovuta essere perfezionata nel breve termine, ovverosia entro l’ormai scaduto 19 marzo.
Guai a non programmare!
Una grande novità che – com’è per tutte le attività della PA, immaginiamo quanto valga questa regola in epoca di emergenza – da concretizzare in ossequio all’irrinunciabile principio della programmazione. Uno step ineludibile cui adempiere tempestivamente ma con le dovute accortezze, tenendo nel debito conto i fabbisogni specifici, nel caso di specie di quello epidemiologico in primis e di quelli del personale occorrente, dei beni necessari e delle risorse occorrenti.
Le Unità speciali di continuità assistenziale
La norma di riferimento (art. 8 del D.L. 14/2020) impone, infatti, che occorre procedere a mettere su una così importante iniziativa a seguito di una accurata analisi dell’esistente e di un apposito piano regionale, eventualmente, ridistributivo delle iniziative di tutela della salute su scala regionale, attese le verosimilmente modificate esigenze assistenziali dovute alla distribuzione dei contagiati e ai rischi da contagio.
Le previste unità speciali di continuità assistenziale – proprio per questo condizionate nella loro concreta previsione e consistenza da una attenta rilevazione dei fabbisogni senza la quale non si rende possibile alcuna utile programmazione – costituiscono le presenze strutturali sul territorio dedite alla gestione domiciliare dei pazienti affetti da coronavirus cui non necessita alcun ricovero ospedaliero. Dunque, iniziative assistenziali propedeutiche al perseguimento di due scopi: rendere possibile agli affetti da Covid-19 di godere della necessaria assistenza specifica extraospedaliera, e dunque presso ovvero in prossimità del proprio domicilio, e conseguentemente di alleggerire la domanda e il ricorso al ricovero ospedaliero.
I requisiti e le caratteristiche
La previsione normativa individua il bacino di utenza ottimale in 50 mila abitanti da individuare in concomitanza di una sede di continuità assistenziale esistente, presso la quale essere insediata e ivi organizzata. Al riguardo, è davvero un peccato registrare oggi in tutto il Paese il non avere realizzato ovunque le Uccp, ma anche le Aft che, quale strumento di miglioramento funzionale dell’assistenza alla famiglia, avrebbe offerto allo scopo un utile contributo. Ciò in quanto l’individuata struttura straordinaria, della ovvia durata limitata allo stato di emergenza in atto, è stata prevista anche allo scopo di alleggerire dall’impegno sul fenomeno specifico i medici garanti dell’assistenza primaria e della continuità assistenziale ordinaria. Dovrà farlo attraendo nel proprio «organico» i medici già presenti nella continuità assistenziale, eventualmente incrementati da quelli che frequentano la formazione in medicina generale e, in via del tutto residuale, dai semplici iscritti al relativo albo. Uno dei forti limiti dell’interessante iniziativa è dato dalla esigua retribuzione garantita agli operatori a fronte del difficile loro impegno professionale. La retribuzione oraria di 40 euro per ogni ora di attività svolta, che poi è la stessa cifra di quella assicurata a titolo di indennità (oltre vitto e alloggio!) ai ben noti 300 medici reclutati per le zone più a rischio, rappresenta uno dei limiti sostanziali al buon esito dell’iniziativa. Un dato che, per la sua importanza, ben poteva prevedere una maggiore disponibilità retributiva, atteso che essa è finanziariamente sostenuta nel suo complesso con apposite risorse vincolate, e quindi separatamente rendicontabili, rese disponibili dal successivo art. 17 del medesimo D.L. 14/2020.
Va tutto pianificato
Interessante e sotto certi aspetti esaustiva, sotto il profilo delle garanzie assistenziali e della collaborazione tra i professionisti coinvolti, è la pianificazione dell’intervento. È, infatti, previsto a carico dei «medici di famiglia» e di quelli della continuità assistenziale, a seguito dell’intervenuto prescritto triage telefonico, l’obbligo di comunicazione dei nominativi e dei loro rispettivi indirizzi dei pazienti affetti dal coronavirus, al fine di realizzare un proficuo rapporto tra questi ultimi e le unità speciali di continuità assistenziali, i cui operatori sono attrezzati dei ricettari prescrittivi del Ssn e di presidi per la protezione individuale. Le anzidette strutture dovranno essere dotate di locali idonei all’accoglienza, separati da tutto il resto per evitare contagi occasionali.
E’ l’occasione giusta per favorire (finalmente) il territorio (e non solo)
Insomma, la previsione di una siffatta tipologia di strutture e la loro istituzione da parte delle Regioni rappresentano una ulteriore presa di coscienza da parte delle istituzioni deputate ad attuare le politiche salutari di dovere dare prevalenza all’assistenza territoriale, più di quanto si sia fatto sino ad oggi. Una affermazione forte ma che comunque necessita sostenere anche in un periodo nel quale il sistema della salute accusa una pericolosa penuria di posti letto da destinare alle malattie infettive, alla rianimazione, alla terapia intensiva e sub intensiva. Un limite che si constata in considerazione che quelli sino ad oggi programmati erano stati realizzati in relazione all’istanza media di ricovero oggi arrivata alle stelle con (ahinoi) la tendenza a crescere.
Da qui, la ineludibilità della istituzione delle dette unità speciali e della loro messa a regime di sostanziale utilità generale per affetti non bisognosi di spedalizzazione ma anche di quelli che vi devono ricorrere e che, oggi, non rintracciano una decorosa relativa offerta.
*docente Unical
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