Negli ultimi trent’anni la Sanità in Italia è stata dimezzata. È rimasta ingabbiata nel tritacarne dell’austerità e con essa il Servizio sanitario nazionale che disponeva di oltre 240 mila posti letto (circa 196 mila nel pubblico e poco più di 50 mila nel privato). Sono i dati del ministero della Salute che dimostrano il salto all’indietro che è stato compiuto e che ci fa avvicinare, se non si fa in fretta ad invertire la rotta, ai Paesi da terzo mondo. Questi i numeri: poco più del 51% dei posti letto sono nelle strutture pubbliche e il privato mantiene il 49%. La causa sarebbe stata delle politiche sul contenimento della spesa decise nel 2012 dal Governo Monti, successivamente “limate” da quello Renzi. A questo, anzi, si deve anche la chiusura dei piccoli ospedali. Insomma i presìdi di salvaguardia della salute pubblica sono stati rivoluzionati da un susseguirsi di tagli e “sforbiciate” che hanno messo in ginocchio la Sanità nazionale.
Un sistema cui i due governi hanno fatto tagli senza preoccuparsi degli effetti e delle ricadute sull’assistenza sanitaria nazionale sulla sfera più debole della società. L’altra parte della popolazione avrebbe potuto invece contare sul proprio portafoglio e rivolgersi alla sanità privata. Questo spaccato di vita italiana è consultabile in un dossier della Camera dei Deputati, dal titolo: “La spending review sanitaria”, nel quale sono contenuti anche i provvedimenti per razionalizzare la spesa, i piani di rientro delle Regioni, l’aumento dei ticket e la diminuzione dei posti letto portati al 3,2 per mille abitanti, nonostante la media europea fosse fissata in 5 letti.
Colpi mirati, ai quali si aggiunse la “Riforma dei Pronto Soccorso”, che ridimensionò i tempi di attesa pur mantenendo immutati i vecchi numeri degli organici dei sanitari e degli infermieri. Per chi gestiva la Sanità si trattò di una operazione vantaggiosa, la classica ciliegina sulla torta, perché obbligava il personale ridimensionato nei numeri a gestire una emergenza ogni 90 secondi. Si capisce così perché gli ospedali, messi nelle condizioni di dover gestire l’emergenza “Coronavirus”, hanno dovuto far ricorso ad aiuti esterni. Lo ha fatto anche la Sanità Lombarda che, pur essendo la regione più ricca d’Italia e può contare su un budget annuo di 19,5 milioni di Euro, si è rivolta al commissario straordinario per l’emergenza per ottenere aiuti. Denaro che esce dalle casse pubbliche per entrare anche in quelle private. Denaro pubblico che va ad “ingrassare” i soliti noti mettendo il fiato sul collo del servizio pubblico per la spartizione del “malloppo”. E c’è da credere che poteva accadere di tutto se in ospedale non fosse arrivato il primo contagiato da “Covid – 19” che ha causato un terremoto nella Sanità pubblica. Gli effetti si sono avuti anche in Calabria. Quasi tutti gli ospedali alzano bandiera bianca e chiedono aiuti. Mancano specialisti dell’apparato respiratorio, di malattie infettive, di medicina interna; ma anche anestesisti, tecnici di radiologia, infermieri e personale Oss. Come pure apparecchiature per la tac e per la respirazione assistita. Tutto questo è in parte dovuto all’emergenza imposta dalla nuova pandemia.
Le responsabilità per il Sud comunque sono datate, risalgono ad oltre dieci anni fa, quando il Governo decise di affidare la sanità ad un commissario per proseguire sulla strada del rientro dal deficit. Non si fa carico, invece, di quanto accade tra le fasce povere della Calabria; di coloro che intanto hanno perso il lavoro e non sanno come garantire un pasto alla famiglia, di chi scende in strada e chiede l’elemosina, di chi tenta di rubacchiare al supermercato e viene denunziato. E’ la stessa Italia che continua però ad elargire le indennità ai parlamentari, al consiglieri regionali, ai sindaci e ai consiglieri comunali molti dei quali capaci solo di fare clientela e intascare emolumenti e gettoni di presenza, ma nient’altro.
Nonostante tutto le idee e le capacità professionali presenti al Sud rimangono alte. Viene dalla Calabria un parere sul cosiddetto “distanziamento sociale”, la disposizione del Governo che obbliga i cittadini a non uscire di casa in questo periodo di pandemia da “Coronavirus”. La dottoressa Amalia Bruni, direttrice del Centro di Neuroscienza dell’Ospedale di Lamezia Terme, pur confermando l’essenzialità della raccomandazione, avverte che «ad essere drammaticamente colpiti dal provvedimento sarebbero coloro che soffrono di demenza». Ne risentirebbero le 600.000 persone affette da Alzheimer in Italia e anche i loro familiari. «È per tutti loro che io sono preoccupata. Non vorrei fare la Cassandra – aggiunge la scienziata calabrese, ma in questo momento in cui il Paese è impegnato nella cura del “Covid-19”, intravedo due possibili rischi per chi vive nelle situazioni di fragilità legate allo sviluppo di malattie degenerative. Temo che il divieto di uscire possa aggravare lo stato d’ansia dei malati di Alzheimer. Se per una persona sana il fatto di non poter uscire è una condizione scomoda, forse fastidiosa, ma tollerabile, per i miei pazienti uscire di casa è non solo una necessità, ma anche uno strumento di cura che permette loro, nei momenti di maggiore difficoltà, di ridurre l’ansia».
*giornalista
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